06/05/12

pubblico il mio maniscritto in cerca di editore: BARACK OBAMA L'AFRICANO

7 gennaio
Confine Somalia – Kenya


A bordo della Jeep che alzava una nube di polvere rossa fine come talco, Mbawi e i suoi uomini percorrevano in silenzio la pista appena tracciata nella vegetazione che sembrava estendersi fino alla fine del mondo. Puntando a sud, avevano lasciato il campo di addestramento ormai da un paio di giorni , ritrovandosi lontani anche dai ruderi di pietra grigia di Komboni. Ultima località costiera della Somalia distrutta dalla guerra e prossima al ricordo, anche se distava solo cinque chilometri dalle bianche spiagge del Kenia. I tre Somali non sapevano quale fosse la parte più rischiosa del viaggio intrapreso, ma ritenevano di buon auspicio aver passato indenni il confine, senza scontrarsi con gli uomini del movimento islamista Somalo Al-Shabaab, e senza neppure avere avvistato altre bande armate, che come loro sfruttavano l’assenza di pattuglie di controllo per operare in territorio Keniano attraverso azioni lampo. Intorno non c’era traccia degli enormi cumuli di immondizia fumanti o della distesa di latte arrugginite che si trovavano nei pressi del presidio di Dadaad, il campo profughi più grande del mondo, per cui, si ritenevano a distanza di sicurezza. Ma tenevano comunque d’occhio la savana. Che sebbene apparisse vulnerabile come un indifeso corpo nudo, poteva rendere invisibili, anche all’occhio dei satelliti, le opere benigne e malvagie degli uomini.

All’interno della Jeep, l’aria bollente mulinava intorno ai corpi lunghi e sudati coperti soltanto da una colorata lunga gonna arrotolata sotto il cavallo. E mulinava intorno alle cosce giovani, ma secche e intirizzite che Haribo teneva incastrate sotto il cruscotto affinché contrastassero gli scossoni intanto che sporgeva la mitraglietta fuori dal finestrino aperto della jeep .La sua la mente sempre occupata dal qat che masticava dall’alba al tramonto di ogni giorno, non assorbiva niente del paesaggio del Kenia che vedeva per la prima volta; né odori, né colori. E nemmeno vedeva le migliaia di brandelli di bustine di plastica portate dal vento che coprivano la bassa vegetazione, gli alti arbusti spinosi e perfino le capanne di fango che si scorgevano in lontananza. Fino lì tutto era come nel suo paese. Pertanto senza alcuna preoccupazione, come la maggior parte del genere maschile che masticava foglie, si liberò del suo sacchetto vuoto dei rametti puzzolenti. Anche l’altro passeggero, Gothi, era un ragazzo come Haribo. Forse i due non lo sapevano, ma secondo il rapporto delle nazioni unite sulle popolazioni sottosviluppate, con i loro vent’anni avevano già vissuto circa metà della vita. Per Gothi e i suoi connazionali maschi, l’aspettativa era di quarantotto anni.
Il giovane in maglietta rossa, data la mole sedeva rannicchiato sull’unico sedile posteriore. E sebbene il suo sguardo ora fosse opaco e perso nel nulla che si intravvedeva a malapena oltre il sudicio lunotto del portellone, quando alzava il telo ai suoi piedi si illuminava di gioia. Ogni volta che Gothi metteva gli occhi sopra al lanciagranate, il tamburo a sei colpi dell’ M32 MGL di un caldo color sabbia, gli appariva come un utero fecondo che veniva penetrato dalla canna nera e dall’organo di mira anch’esso scuro. Allora, in balìa dalla visione si abbassava a palparlo fino a quando un brivido di lussuria gli avvolgeva i lombi, mentre il cervello gli confermava che la trasformazione era la premonizione di un amplesso tra un nero e una donna bianca. Il ragazzo non era nuovo a simili fantasie. L’ultima risaliva al giorno precedente, quando eccitato come dentro una donna, aveva esploso i proiettili da 40mm contro il campo dei guerriglieri della liberazione di Kalama. Gothi si riscosse e alzò di nuovo la testa incontrando l’immagine di Mbawi riflessa nello specchietto retrovisore. L’uomo con il basco guidava con l’aria accigliata di sempre incollata al nastro rossiccio che gli si snodava davanti. Come gli altri non rivolgeva mai lo sguardo ai lati della strada per ammirare l’incredibile bellezza della vegetazione, le grandi distese di savana, la vita silenziosa e tenace. Caduto il vento della civiltà, intorno rimaneva soltanto legna da ardere in un territorio da predare.
Lo Xeer, il diritto tradizionale Somalo, era stato sostituito ormai da troppo tempo dall’egoismo della necessità, perdendo di ogni significato. La sopravvivenza del popolo al quale appartenevano, era legata alle carestie, mai così dure da oltre sessant’anni, alla grave siccità, che costringeva migliaia di persone a spostarsi, al banditismo e alle cifre sconfortanti degli scontri tra opposte fazioni, ed era quindi impensabile che gli uomini potessero rispettare il mondo, compagno nel viaggio della vita. I venti delle ripetute guerre, avevano seppellito sotto metri di polvere rosso sangue la sensibilità degli uomini e il Biri-ma-geydo, ovvero, il principio che ha la sua origine nell’astenersi dal tagliare un albero per via della sua ombra, della sua rarità e delle sue particolari ragioni religiose. Principio, che tanto tempo veniva esteso dalle popolazioni Somale anche ad alcune categorie di persone a cui doveva essere risparmiata ogni violenza. Gothi si fece coraggio . Voleva approfittare del momento di intimità per adulare Mbawi :
-Quando arriveremo all’aeroporto, cosa faremo capo ? Avrai certamente pensato come la convincerai a seguirci— disse riferendosi al piano che il suo capo aveva ideato.
Ma Mbawi facendo finta di non udire rimase in silenzio; non aveva alcuna intenzione di rispondere a quella domanda idiota. Al momento era intento a rimuginare sugli altri due ragazzi che aveva lasciato a presidiare il suo campo di addestramento situato nella terra di nessuno. Perché nonostante la Somalia fosse ridotta in rovina, e gli atti criminosi la normalità quotidiana che fino dal 1991 aveva gettato il popolo in uno stato di guerra permanente, Mbawi non riusciva a tollerare la scontata inaffidabilità degli uomini. Come capo del gruppo, credeva ancora caparbiamente nel rispetto delle gerarchie, e benché non pretendesse gratitudine dai suoi, ma un doveroso senso di lealtà, gli scaricava addosso tutta la rabbia e frustrazione che nutriva verso il mondo intero. Il Capo Somalo, sebbene fosse a conoscenza che al momento gli shaabab, il maggiore dei movimenti islamisti presenti in Somalia, non fossero interessati a conquistare la parte di territorio disabitato e selvaggio dove sorgeva la sua base, sapeva che una protezione era comunque indispensabile. La zona era infestata da bande di uomini disperati che rischiavano la vita per depredarlo delle rarissime casse di birra , dei viveri o delle armi che in Somalia valevano più dell’oro. Sicché per necessità, alcuni mesi indietro aveva dovuto acquistare quattro uomini al porto di Chisimaio, un braccio di cemento controllato dagli Shabaab, contrattando sul prezzo come fossero merce. Pur negando anche a se stesso di aver provato allora una sensazione piuttosto simile alla pietà, ricordava che non appena si era addentrato nel labirinto di carcasse di camion e auto bruciate aveva ringraziato gli spiriti, che scegliendo per lui un altro destino gli avevano evitato la stessa umiliazione della moltitudine di uomini laceri e ossuti che imploravano dietro i sempre più rari equipaggi pakistani che si avventuravano fin là. L’acqua cristallina del porto e il vento del cielo blu , una volta accompagnavano decine delle loro barche in legno decorate con colori vivaci che commerciavano di tutto, ma ormai ad attenderli sui moli, c’erano solo uomini sottili come fantasmi che cercavano di strappare un imbarco verso Mogadiscio e poi verso l’ignoto. Facce stanche che vagavano accontentandosi di trovare un pugno di cibo che li tenesse in vita fino a sera, o di un lavoro anche della durata di poche ore; specialmente in quei giorni di continui scontri armati che di conseguenza avevano azzerato la capacità di soccorso medico e alimentare da parte delle agenzie umanitarie. Uomini così traumatizzati da credere che – altrove – fosse meglio del loro paese senza presente.
Stigo e Cawi , facevano parte di quella moltitudine, ma una volta arruolati da Mbawi, si erano abituati velocemente alle comodità del campo, e come gli altri due compagni sembrava avessero dimenticato l’inferno della città e del porto.
Così un paio di mattine prima, quando il gruppo si stava dividendo, si presentarono a Mbawi che si apprestava a lasciare il campo in compagnia di Gothi e haribo, instupiditi dal qat e incapaci di restare in equilibrio per le numerose birre che si erano scolati. Anzi, abbandonando la consueta spacconeria, avevano candidamente confessato le loro intenzioni:
– Capo, noi approfitteremo della vostra assenza per dormire. Dopo la guardia di stanotte siamo stanchi morti— gli avevano detto.
Mbawi che divampava di rabbia anche adesso che ci ripensava, aveva dovuto prenderli a calci per fargli controllare le scorte dei viveri e dare una ripulita alla baracca dove avrebbero nascosto la donna. Infine prima di partire per la spedizione punitiva al campo di Kalama e per Mombasa, dove ora si stava dirigendo, li aveva minacciati di morte e bastonati fino a lasciarli tramortiti. Quindi al momento non poteva far altro che stare in ansia.
-- Con la disciplina e una buona dose di frustate riuscirò a raddrizzarli. Gli farò ricordare che sono passate solo due stagioni da quando giacevano addossati a un muro del porto come un mucchio di stracci.—
E intanto che guidava sballottato dalla pietraia, ricordava quando punzecchiandoli con la punta degli anfibi li aveva risvegliati dal torpore della fame:
--Ho bisogno di uomini che sappiano sparare e mi servano senza fare domande . A quale clan appartenete?— aveva chiesto come prima cosa mettendo mano al coltello che portava sempre con sé
-- I benadiri —aveva risposto uno di loro con lo sguardo sprofondato sull’asfalto. Mbawi, rilassandosi aveva riso – e lo chiamate clan? Quella comunità di agricoltori del cazzo? Non è altro che un’accozzaglia di razze--
--Allora sarai contento di sapere che noi siamo i soli sopravvissuti. Mi hanno detto che il clan è stato decimato dal veleno. Quegli imbecilli si sono bevuti tutta l’acqua dei bidoni che hanno trovato sulla spiaggia. Uomini donne e bambini hanno cacato e pisciato sangue prima di morire. --Ehi Gothi!-- aveva rincarato Stigo alzando la testa
-- guarda che il sangue gli usciva anche dagli occhi. L’ho visto io!---
-Le scorie radioattive dei culoni europei. Ecco cosa li ha ammazzati !- tagliò corto Mbawi, battendosi rumorosamente una mano sulla coscia. Avendo visto la costa disseminata di migliaia di bidoni gialli dopo le mareggiate non dubitò delle loro parole.
-- Dunque siete dei bastardi. E a guardarvi bene si vede che non appartenete a clan dominati, come gli Issaq,i Darod ,i Hawiye, o ad altre famiglie di nobili nomadi cammellieri.- Con disprezzo aveva sputato in direzione dei quattro, magri da far paura. infine, dopo averli guardati per un po’ con aria severa aveva rinfoderato il coltello pensando - almeno non sono di un clan nemico.
- Va bene, vi prendo- sentenziò deciso, anche se in Somalia l’appartenenza al clan stava perdendo importanza a vantaggio di altre dinamiche puramente lucrose.

Gothi nel frattempo non si era arreso. Pur non avendo qualcosa di interessante da dire , fissò il suo capo che guidando si scolava una birra. Cambiò argomento nel tentativo di imbastire una conversazione.
-- per fortuna Comandante hai portato un bel po’ di dollari. Il viaggio a Mombasa ti sta costando una fortuna !—
Mbawi, stavolta cedette alle lusinghe. Adorava essere chiamato comandante.
– ah! Avete visto? I soldi sono una buona soluzione in tutte le situazioni. Non abbiamo perso tempo . Ai posti di blocco che abbiamo incontrato dopo il confine è bastato allungare qualche biglietto verde per far chiudere un occhio ai militari. I Kenioti bastardi puntano il dito contro noi Somali, mentre si stanno riempiendo di soldi con il business degli aiuti umanitari, dei profughi e il traffico d’armi
— Accigliato sputò fuori dal finestrino la saliva verdastra delle foglie di qat che teneva appallottolate all’interno della guancia .
Haribo lo guardò ridendo, anche lui con i denti impiastricciati di verde
— chiudere un occhio comandante?, ma quelli erano diventati completamente ciechi!
– Mbawi, non rise. Tornò con la mente a ciò che più gli piaceva, mentre la baraccopoli alla periferia di Mombasa appariva all’orizzonte. Del resto, quando parlava o pensava al campo dei Guerriglieri della liberazione completamente distrutto, godeva come quando stava con una puttana.
-- che soddisfazione ho provato ieri- disse -- Quando abbiamo sparato le granate sul covo di kalama, avrei pianto di gioia. Bum! Le baracche e le capanne di fango sono sparite in un attimo! Vorrei fare lo stesso in ogni sporco villaggio del nostro paese di merda! Bum! gli amici di Kalama, non sono più un problema. Tutti morti! E’ un’ arma potente quel lanciagranate, non trovate ragazzi? Dobbiamo cercare di piazzarne il maggior numero possibile puntando sull’efficacia e la precisione micidiale. Mi ha detto Hans, che l’arma è il massimo contro i veicolo leggeri.
--- capo?---disse Gothi sporgendosi versi di lui mentre rideva sguaiatamente ---Hai visto che buche abbiamo fatto nel terreno? Il campo è già pronto per seppellire i morti! — e oggi tocca a kalama!--
Mbawi , rabbuiandosi in volto li avvertì --Dobbiamo giocarcela bene questa carta. Sappiate che in caso di fallimento non avrò pietà di voi. Vi venderò per sacrificarvi nei riti mingis. Vi spelleranno vivi e doneranno il vostro corpo agli spiriti. Quindi state attenti a ciò che fate!-- La minaccia del capo e la paura degli spiriti Jinn fece calare di nuovo il silenzio nell’abitacolo della jeep .



Mombasa, Kenia.
Stesso giorno ore 11 a.m.



Il taxi sovraccarico apparve in lontananza. Si dirigeva anch’esso all’aeroporto di Mombasa, dove già centinaia di pulmini, assediando il terminal delle partenze, scaricavano frotte di turisti per niente entusiasti di lasciare il Kenia al termine delle vacanze Natalizie. Il tassista, che doveva tornare a Malindi per una nuova corsa, guidava a velocità sostenuta verso lo scalo infilandosi pericolosamente fra gruppetti di turisti distratti e ingombranti valigie, impaziente di aggiungere anche i Donner alla lunga fila di esseri umani che simile a un drago cinese si snodava fin dentro l’edificio.
Quando Tom e Liz raggiunsero l’interno, compresero perché fuori regnava il caos. E come tutti i presenti impiegarono ore a sbrigare le lungaggini delle nuove disposizioni in materia di sicurezza, che consistevano in un estenuante triplo controllo incrociato dei passaporti e dei documenti di viaggio . La complessa trafila burocratica, ulteriormente aggravata dall’abituale lentezza con la quale gli agenti effettuavano la rozza, quanto confusionaria, ma consueta perquisizione dei bagagli, rischiava di far scoppiare una rivolta fra i turisti in attesa, stanchi e sudati anche per il terribile calore che la copertura del terminal non riusciva ad arginare. Nemmeno Tom riusciva ad accettare di buon grado tali metodi e allibito di fronte alle valigie impossibili da richiudere, se non saltandoci sopra, imprecava nella calca che lo spintonava, mentre i bambini aggrappati alle braccia di Liz, si lagnavano per la sete e la pipì .
La famiglia non aveva più molto tempo a disposizione prima della partenza per Washington, e nonostante i Donner avessero lasciato il Coconut Village con largo anticipo sull’ ora del decollo, ora potevano soltanto dirigersi verso la sala d’attesa , con i talloncini delle carte d’imbarco e i passaporti a portata di mano. Tom, più stanco e innervosito che alla fine di una giornata passata in ufficio, incredibilmente trovò quattro posti liberi in un angolo della sala affollata dove sedette per riposarsi i piedi, che ribellandosi alle scarpe in cui erano di nuovo chiusi dopo quindici giorni di assoluta libertà, per protesta gli lanciavano delle terribili fitte. Era talmente irritato, che i suoi occhi chiari infossati nel volto magro, come laghi nel cratere di un vulcano, guardavano con insofferenza Meggy e Clive mentre si litigavano una lattina ridendo troppo forte , e Liz che si stava ravvivando i lunghi capelli biondi indifferente al baccano dei piccoli. Improvvisamente, quasi sobbalzando, lei lo fissò con uno sguardo che Tom conosceva bene, perché quando i suoi occhi si spalancavano sugli alti zigomi da gatta, di solito erano scocciature. Infatti tutta eccitata stava porgendogli il proprio passaporto e biglietto :
-- Ho dimenticato di ritirare la stecca di sigarette che ho lasciato in deposito quando siamo arrivati!. Ricordi Tom?. L’abbiamo lasciata alla dogana per non pagare la penale.-- —
Tom si domandava perché Liz trovasse sempre qualcosa da fare nei momenti meno opportuni. Rassegnato alzò gli occhi al cielo prendendo i documenti che gli porgeva, mentre lei freneticamente già cercava la ricevuta della dogana nel portafoglio straboccante di piccoli depliant pubblicitari e biglietti da visita. Giacevano lì da chissà quanto tempo, e anche se Liz aveva dimenticato quali servizi offrissero, si ostinava a non toglierli , perché pensava le sarebbero tornati utili in qualche situazione imprevista. Trovò la velina rosa, scritta in una lingua per lei incomprensibile sorridendo soddisfatta
–eccola qua--- Ma Tom, raffreddando il suo entusiasmo la esortò con aria scocciata:
– Liz, ti prego! Perché fai sempre così? Come al solito te ne sei ricordata all’ultimo minuto!. Lascia stare per favore! Non vorrai farci perdere l’aereo, vero?—
-- Toglimi una curiosità. Perché ti affanni tanto per chiunque?—la discussione si stava rapidamente trasformando nel loro usuale battibecco.
-- Mio padre non è chiunque!- rispose Liz offesa senza guardarlo in faccia
-Certo. Ma tu sai benissimo perché le sue sigarette si trovano al deposito doganale!
–Non ho saputo dire di no—si giustificò lei imbarazzata
-- Come al solito!—rispose stizzito Tom, agitandosi sulla sedia di plastica
-- Così, accollandoci le sigarette eccedenti di una coppia di stramaledetti fumatori, che tra l’altro neanche conoscevamo, abbiamo fatto una coda impressionante per lasciare in deposito la stecca di tuo padre, e adesso.. –
Liz lo interruppe. Finita la vacanza era tornato critico nei suoi confronti. Come al solito.
--. Si, si, va bene – tagliò corto Lei, che non avendo cambiato idea si stava guardando intorno alla ricerca di qualcuno che potesse indicarle gli uffici della dogana.
—Hai ragione -- rispose distrattamente adocchiando qualcuno tra la folla.
-- ma stai tranquillo, ci metto un attimo. E voi bambini state buoni,la mamma torna subito- non lasciò a Tom il tempo di replicare. Si allontanò confondendosi nella folla di turisti carichi di ingombranti souvenir, attenta a schivare pacchi e borsoni.
Raggiunse la poliziotta dai fianchi generosi che aveva intravisto da lontano : -- mi scusi, sa dirmi a chi posso rivolgermi? – mostrò il foglietto alla donna strizzata nella divisa attillata, che senza proferire parola prese la ricevuta a cui aveva dato appena un’occhiata facendo cenno di seguirla.
Liz, ubbidiente nonostante provasse una punta di disagio, la seguì nel posto di Polizia deserto passando da una porta di servizio. L’ufficio era male illuminato e sporco, ma ormai era dentro e per non perdere di vista la donna, non poteva far altro che calpestare velocemente con le Nike bianche e rosa, le cartacce, i mozziconi di sigaretta e il tappeto di bicchierini da caffè usati sopra i quali, a differenza di Liz, la poliziotta in divisa passò con disinvoltura raggiungendo per prima un lungo e stretto corridoio senza finestre. Le anguste pareti scrostate tappezzate di poster scritti in inglese promettevano - service to all- e presumibilmente anche quelli in lingua locale che recitavano - utumishi kwa wote- , pubblicizzavano il vigoroso impegno che le forze dell’ordine Keniote mettevano in campo per contrastare i criminali.
Liz Donner si stava chiedendo se la poliziotta che la precedeva ancheggiando nella parte di aeroporto vietata al pubblico avesse capito cosa le occorreva , e se non fosse stato un errore allontanarsi da Tom con così poco tempo a disposizione. Tutti i peggiori pensieri gli frullavano per la testa, proprio mentre oltrepassava un’ennesima porta ritrovandosi nel retro dell’ufficio dogana riservato al personale. La poliziotta intanto era entrata nell’ufficio gridando verso gli agenti doganali, che non si erano accorti della loro presenza. Gli impiegati, affogati da pile di pacchi di varie forme e dimensioni apparentemente accatastati alla rinfusa in ogni angolo dell’angusto ufficio, non presero bene l’intrusione, dal momento che iniziarono a urlare contro la poliziotta, limitandosi a guardare la turista con aria scocciata. Liz non poteva far altro che sorridere imbarazzata.
In attesa che gli agenti si decidessero a dirle qualcosa, guardava gli squallidi mobili dell’ufficio rovinati dalla luce del sole, raschiando con le dita il bancone a cui si era appoggiata. Le grosse scaglie di coppale cristallizzata, cadendo a terra si frantumarono in un tappeto croccante che le ricordò il caramello che sua madre le preparava quando era piccola. All’improvviso il sacchetto del duty-free di Washington, le apparve davanti agli occhi, scuotendola dal momentaneo isolamento nel quale cadeva sempre più di frequente. Era posato sul ripiano alle spalle dell’uomo dietro il bancone che ora teneva la ricevuta tra le mani.
-- Eccole lì! quelle sono le mie sigarette. Posso averle per favore?— intanto un’occhiata alle lancette dell’orologio sulla parete le ricordarono che era maledettamente in ritardo, come Tom aveva profetizzato. Il poliziotto ,che invece aveva a disposizione tutto il tempo del suo turno di lavoro, guardandola con cupidigia le fece un inequivocabile gesto in cambio della stecca che intanto aveva preso dal ripiano .
Liz timidamente azzardò a mezza voce:
– credo non ci sia niente da pagare – e mostrando le tasche vuote aggiunse
-- mi dispiace non ho soldi. Non ho portato niente con me,-- allungò una mano per prendere la stecca di sigarette che le apparteneva pensando:
–E’ solo una sceneggiata per spillarmi un po’ di soldi, ma sta durando più del dovuto – intanto, anche se al momento non si sentiva in colpa per la propria cocciutaggine, si maledisse comunque. Per abitudine.
– Se devo pagare, non fatemi perdere tempo, il mio aereo sta partendo e mio marito mi sta aspettando. Indicatemi l’uscita per favore. Se mi affretto faccio in tempo a tornare con i soldi. ---
Nel frattempo dalla porta a vetri alle sue spalle, sulla quale era affisso un enorme cartello di divieto di ingresso, entrò direttamente dalla strada prospiciente l’aeroporto, un altro agente alto e corpulento. Indossava il basco azzurro, occhiali dalle lenti a specchio e gesticolava smodatamente sbraitando in swahili. Chiuse la porta con un poderoso colpo di tacco, tanto che i vetri sottili tremarono come se dovessero andare in frantumi. Gli agenti intimoriti si zittirono all’istante. --forse è un loro superiore e gli sta facendo una lavata di capo perché io non dovrei trovarmi qui.-- pensò Liz che dalle budella riceveva i primi segnali di pericolo. L’uomo si sfilò gli occhiali rivolgendole uno sguardo torvo , mentre Liz mandando al diavolo le sigarette, sentiva il bisogno impellente di fuggire. Aveva cominciato a indietreggiare nella speranza di raggiungere, attraverso il percorso fatto con la poliziotta, la sala d’attesa dove Tom e i bambini la stavano aspettando, sicuramente preoccupati del suo ritardo, ma l’agente senza neanche degnarsi di salutarla, le bloccò il passo chiedendo con aria imperiosa: passaporto! - Con il batticuore Liz si rese conto di aver lasciato l’area del Chek-in, da dove è possibile uscire solo con il passaporto e i documenti di imbarco, e di essere nuovamente tornata in territorio kenyota. Per di più senza alcun documento. --Mi dispiace, ma non ce l’ho. Non credevo mi servisse e l’ho lasciato a mio marito - Non ha documenti ? e allora come ha fatto ad entrare qui? Qual è la sua nazionalità? Ma soprattutto dove è diretta? --Tagliò corto il poliziotto. Liz intimidita rispose cercando di ammorbidirne i modi: -- Sono americana, di Washington D.C. mi chiamo Elizabeth Browining Donner, -- si sforzava di sorridere per sdrammatizzare --non ho il passaporto, qui con me voglio dire, perché mi ha accompagnato lei! – si voltò cercando con gli occhi la poliziotta che nel frattempo si era dileguata mentre gli agenti in disaccordo sul regolamento da applicare la stavano circondando. Liz perse la poca pazienza di cui era dotata . ---Perché mi trattate come una criminale ,eh? Sono soltanto una turista. Voi invece siete degli idioti! Cosa volete da me? Dov’è il problema? Soldi? Vi ho detto che non ne ho! Fatemi uscire da questo posto, mi farete perdere l’aereo. Stupidi idioti! --- Gridava guardando una per una le facce stupite. --Signora, si calmi— -Perché dovrei calmarmi? Sappiate che potrei farvi passare dei guai per il vostro atteggiamento. – Stava bleffando. Aveva una paura fottuta. --Signora, forse non si rende conto . Sono io che potrei farle passare un grosso guaio-- gli sibilò davanti alla faccia il poliziotto che stringendole un braccio cercava di trascinarla fuori dall’ufficio —Mi lasci!!--- Gridava Liz, -- ma dove mi sta portando!? Sono una cittadina americana! Mi lasci ! – in preda al panico si divincolava dalla stretta –Il poliziotto le avvicinò la faccia unta, e scuotendola le sibilò all’orecchio: --Signora, ringrazi il suo Presidente Africano se non la sbatto in galera— Spingendola fuori dall’aeroporto la lasciò a strepitare da sola davanti alla porta che le chiuse in faccia. . Tom guardò l’orologio per l’ennesima volta. Era passata più di mezz’ora e adesso anche i bambini chiedevano con aria preoccupata – papà, dov’è la mamma? Io sono stanca. Mi annoio e voglio andare a casa! -- Meggy lo stava guardando accigliata mentre si grattava la pelle scottata cosparsa di piccolissime lentiggini che decoravano il suo nasetto da impertinente -- Anch’io, anch’io mi annoio!-- piagnucolò Clive sbattendo ripetutamente sullo schienale di plastica la nuca coperta da un caschetto di bizzosi capelli biondi che ondeggiava in continuazione. Tom cercò di rassicurarli intanto che con il cellulare all’orecchio si teneva pronto ad aggredire Liz non appena avesse risposto. Lo squillo proveniente dalla borsa al suo fianco lo gelò. – State buoni ,la mamma sta arrivando. Vado un attimo da quel signore vestito di blu — disse loro indicando l’impiegato all’imbarco – Se state tranquilli, appena torno vi compro il gelato. Va bene?—loro annuirono anche se controvoglia. Prima di allontanarsi domandò all’uomo seduto al suo fianco se poteva affidargli i piccoli solo per pochi minuti e corse al banco chiedendo con voce agitata: --Per favore, può fare un annuncio per mia moglie? È andata mezz’ora fa alla dogana e non è ancora tornata. Sono seriamente preoccupato-- disse toccandosi nervosamente l’orologio -- Voi avete cominciato ad imbarcare, ma mia moglie non c’è. Io ho i bambini seduti lì da soli-- disse mentre vedeva anche da lontano le loro facce imbronciate--- non so come fare.--- -Certo signore . Sicuramente sua moglie avrà trovato molta gente in coda allo sportello-- rispose l’uomo prendendo con gesti svolazzanti un microfono,-- mi dica il nome della Signora-- Mombasa, Kenia . Stesso giorno ore 2 p.m. Fuori dall’aeroporto , Mbawi, , Gothi e Haribo , sfoggiavano delle divise della Polizia Keniota sporche e sudate, ma più o meno della loro taglia, che avevano acquistato con facilità , ma non per una modica cifra. Si tenevano a distanza uno dall’altro per non dare troppo nell’occhio , ma tutti e tre erano alla ricerca della donna giusta e della giusta situazione. Gothi ed Haribo erano confusi: non avevano mai visto così tante giovani donne occidentali. E se da un lato sentivano la necessità di nascondersi, di non guardarle, dall’altro non gli bastavano gli occhi per i corpi nudi e dorati che le turiste mettevano in mostra. Mbawi, invece pareva insensibile al fascino femminile, poiché si rendeva conto solo ora di quanto fosse difficile scegliere la vittima. E non certo per colpa della bellezza. C’erano donne provenienti da tutto il mondo, in grado di soddisfare i gusti estetici di ogni uomo. Il vero problema era trovarne una che fosse sola. -- sono tutte puttane – pensava infastidito dal loro atteggiamento spregiudicato. Il somalo mentre le guardava ridere e scherzare con altre persone temeva seriamente di non poter portare a compimento il piano. E stava cercando di individuare Gothi e Haribo per consultarsi, quando la sua attenzione fu attratta da una voce dal tono isterico : - E ora? Come faccio a ritornare al gate?-- gridava la donna colma di rabbia intanto che si passava le mani sul viso battendo i piedi come una bambina capricciosa . --- Ma guarda in che guaio mi sono cacciata! Devo chiamare Tom, senza il passaporto non posso rientrare – ma il pensiero di dover spiegare la sua assurda situazione a qualche sconosciuto solo per farsi prestare un telefono, e dover spintonare il muro di persone che si accalcava all’ingresso la faceva star male. I tre la notarono nonostante la confusione che li circondava. Non ebbero bisogno di consultarsi. Bastò lo sguardo d’intesa che si lanciarono. La donna che stava di fronte a loro aveva tutte le carte in regola per essere scelta. Alta come un uomo, aveva i magnifici capelli biondi di cui Gothi andava pazzo e occhi chiari come sognava Haribo. Liz era un corpo sinuoso coperto solo da una corta maglietta e un paio di pantaloncini lilla che lasciavano le lunghe gambe lucide di olio splendenti al sole. Ma soprattutto era sola. Elizabeth Browning Donner era la vittima perfetta per il piano di Mbawi. Si avvicinarono. --Sono il comandante del distretto di Amala. E’ sola Signora ? possiamo aiutarla? – Si presentò Mbawi, mentendo alla giovane donna che aveva l’aria di essere disperata.. –vi prego aiutatemi—concluse Liz guardando con occhi imploranti gli agenti ai quali aveva appena spiegato cosa le era accaduto. –Va bene signora. La preghiamo di comprendere il comportamento dei nostri colleghi. Il nostro è un paese difficile. Prego, da questa parte. ----Mbawi , era l’unico dei tre che parlando un poco di inglese, sorridendo si rivolgeva a Liz con un tono di voce gentile. Ma per quanto si sforzasse, risultava comunque viscido e stucchevole. Precedendo Liz di qualche passo, indicò il lato meno affollato dell’edificio . ----passiamo da questa parte, Signora . In breve sarà di nuovo al suo gate. La accompagneremo così potrà mostrarci il suo passaporto, dopodiché chiuderemo questo spiacevole incidente--- Gli uomini la scortarono tenendo gli occhi fissi sul corpo distante solo pochi passi e guardando le sue forme, provarono la stessa eccitazione che l’adrenalina accende in un cacciatore negli attimi che precedono la cattura di una preda . Liz taceva. Non era tranquilla ma doveva fidarsi dei poliziotti. Ormai era troppo tardi per avvertire telefonicamente Tom . E poi, anche se riconosceva le regioni del marito , era orgogliosa di risolvere da sola i propri problemi, soprattutto quando lei stessa ne era la causa. — E’ colpa mia, vado sempre in cerca di guai.-- pensava intanto che camminava a testa bassa cercando di tenere sotto controllo l’ impulsività che poco prima si era rivelava la sua peggior nemica. Malgrado i tre agenti le stessero appiccicati come toppe sui pantaloncini, non era di quello che si preoccupava, così alta e bionda era abituata a pesanti attenzioni, piuttosto percepiva una lieve e sfuggente sensazione di pericolo che la lambiva. Ma al momento l’importante era affrettarsi. Non vedeva l’ora di riabbracciare Tom e raccontargli quanto di incredibile le era successo, così da giustificare il suo terribile ritardo. E non vedeva l’ora di baciarlo dicendogli quanto le dispiacesse lasciare l’Africa con l’amaro ricordo del loro litigio. Il gruppetto nel frattempo aveva girato l’angolo della palazzina camminando in una strada che conduceva a un edificio basso dipinto di un bianco abbagliante dove si affacciavano una serie di porte blu che sembravano magazzini. Dietro le sue spalle, intanto una mano nera con solo quattro dita versava una abbondante dose di anestetico. Liz all’improvviso si ritrovò in pieno sole. Abbagliata, alzò il palmo per schermarsi gli occhi, troppo chiari per la luce dell’africa, giusto in tempo per non sbattere contro una jeep coperta di polvere parcheggiata per metà sul marciapiede. Uno straccio scuro le piombò sulla faccia. Liz, in preda al panico sgranò gli occhi, mentre un odore e un sapore sconosciuto, dolciastro e acre allo stesso tempo, le riempivano bocca e polmoni . In un lampo l’adrenalina le invase le vene martellando il suo cuore come un motore fuori giri, inondandola di forza mentre lottava e mugugnava cercando disperatamente di lanciare un grido. Doveva assolutamente allontanare la sua bocca dallo straccio per inspirare un po’ d’aria. Ma era impossibile. Anche se il terrore della morte amplificava le sue forze, braccia pesanti come tronchi le immobilizzarono la testa . Le braccia. Le gambe. Tradita dall’involontario meccanismo dei polmoni affamati di ossigeno Liz respirò il cloroformio e perse i sensi accasciandosi nelle braccia di Gothi. Facendo scudo a Liz con il proprio corpo, i tre somali si guardarono intorno. Nessuno in vista. Haribo aprì il portellone posteriore del fuoristrada dove la robusta cassa in legno che era servita a trasportare il lanciagranate attendeva già aperto. Dopodiché issarono e adagiarono Liz al suo interno. Mbawi con gesti veloci e sicuri, stappò con i denti il cappuccio di una siringa già riempita di un liquido trasparente, che aveva nascosto nel taschino della divisa. -- Fino all’arrivo al campo la dose di narcotico ti terrà buona--. Sussurrò conficcandole l’ago nel braccio . Anche Gothi saltò a bordo mentre Mbawi e Haribo erano già scivolati sui sedili anteriori della jeep. Attento a non calpestare il lanciagranate, chiuse la bara al suo fianco e posizionò il coperchio coperto di fori di ventilazione che aderì perfettamente alla base . Tutto era andato bene e l’operazione aveva richiesto pochi minuti. I tre uomini eccitati si sentivano incredibilmente bene e ridevano soddisfatti per l’impresa appena compiuta, godendosi lo spirito di gruppo mai provato prima. Il muso del fuoristrada puntò verso il confine Somalo. Mbawi per scaricare la tensione si accese una sigaretta, lanciando occhiate alla cassa che come un forziere conteneva il suo bottino. E quasi rideva pensando alla faccia che avrebbero fatto Stigo e Cawi alla vista di quella bellezza che erano riusciti a catturare così facilmente. Intanto Tom Donner all’interno dell’aeroporto con il respiro corto si guardava intorno alla ricerca del volto della moglie, ma di minuto in minuto sentiva crescere la rabbia.. Mentre udiva il nome di Liz che dagli altoparlanti riempiva l’aria di tutto l’aeroporto, aveva le budella attorcigliate dall’ansia. L’annuncio era la prima cosa che gli era venuta in mente,e per varie volte la chiamata dello Stuart con voce fredda e impersonale venne ripetuta. Ma lei non sarebbe tornata. Due mesi dopo il rapimento Marzo Washington D.C. White House Il Presidente guardò il cielo su Washington che dopo il temporale della notte era di una rara bellezza, e intuì dal suo colore che anche l’aria della mattina invernale fosse particolarmente frizzante . Si voltò apparentemente calmo e compassato, sebbene le sue mani tentassero di nascondere alle telecamere, la sgargiante cartella verde. L’aveva appena ricevuta da una delle poche persone fidate che lo circondavano. Seguendo l’istinto , pensò, senza averne la certezza, che le persone coinvolte nei fatti riportati nelle pagine del rapporto, nonché lui stesso, sarebbero state più al sicuro se durante la sua assenza, il dossier non fosse rimasto incustodito alla casa bianca. Così l’elegante uomo che stava di lato al Presidente , lanciando un ennesimo sguardo preoccupato all’orologio sulla consolle, non vide il rapporto scivolare nella valigetta ingombra e incunearsi profondamente tra i documenti da presentare ai delegati del paese africano che il suo comandante in capo doveva incontrare a New York. -Che diavolo sta facendo il Presidente?— si domandò l’uomo nella penombra. Le telecamere a circuito chiuso attraverso un deviatore di frequenze installato con la complicità del servizio di sicurezza, inviarono le immagini dalla sala ovale , all’ala ovest dello stesso edificio , moltiplicandosi sui numerosi monitor che tappezzavano la stanza protetta da spesse pareti in cemento armato e schermata contro gli impulsi elettromagnetici. Solo i ronzii dei computer e degli aspiratori facevano compagnia all’ uomo magrissimo, di aspetto asiatico e dall’ età indefinibile, che teneva gli occhi a mandorla, lucidi per il fumo, piantati sui video. --- Ecco, ecco, così! Da bravo spostati sulla destra.. --L’agente Song, già da un po’ tentava di mettere a fuoco il gesto poco chiaro di Barack Obama; ora muovendo la testa a scatti, ora dondolando avanti e indietro come un uccello. Concentrato sui gesti del Presidente infine esultò: – E’ come pensavo!. Figlio di puttana. Cosa hai nascosto?! E tu?, non volevi farti beccare consegnandogli la cartella. Ma vi ho visto !— parlava rauco, a denti stretti, sputacchiando un fuoco di saliva sullo schermo HD che gli stava a due palmi dal naso. Come se l’uomo in compagnia del Presidente potesse sentirlo. -- Ti ricordo, mio caro, che tu ed il Signor Presidente, probabilmente state violando le regole. Anzi, ne sono più che sicuro. --. E fischiettando un motivetto in voga , saltellò sulla sedia girevole dando le spalle al monitor che per il momento non aveva più niente da svelargli. Il suo dito minuto e ingiallito dalla nicotina, senza indugiare compose il numero di telefono del Senatore . Sala Ovale – White House Washington D.C. L’umore di Barack Obama era irrimediabilmente cupo. Se ne stava con gli occhi chiusi e i palmi delle lunghe mani brune appoggiate alla scrivania, intento a scaricarle senza riguardo, il proprio peso e magari anche il pesante fardello delle preoccupazioni. -- la tregua, anche se fragile come il vetro deve assolutamente tenere fino alla firma del trattato . Sempre che le parti non siano di nuovo nelle mani delle lobby -- Pensò , sospendendo dalla vista l’inquietante sobrietà della soffocante stanza ovale e chiamando a raccolta tutte le forze necessaria per affrontare la situazione nord-africana su cui rimuginava già dall’alba. A guardarlo sembrava cercasse di concentrarsi, ma sotto la pelle liscia del viso e la postura spavalda delle spalle, inspirava profondamente aria per placare l’ansia. Dannazione! Se così fosse potrebbero non firmare.-- Mentre pensava l’angoscia lo assalì di nuovo, tanto da fargli prefigurare i peggiori scenari possibili: -- Si attaccheranno a qualche cavillo legale del testo e rifiuteranno l’accordo. Stiamo ancora agendo in modo disarticolato, troppe lacune istituzionali, troppa corruzione. —Il Presidente che sapeva nascondere bene i suoi tormenti , si riscosse e finì di riporre i documenti rimanendo in silenzio sotto lo sguardo dell’uomo alto e robusto che gli stava di fronte. La sua presenza era ormai abituale per lui; come la nuova e complicata vita alla Casa Bianca. Ma i cambiamenti : dal ruolo di Senatore a Presidente, erano stati talmente tanti e sconvolgenti, che per Barack era stato impossibile arrivarvi completamente preparato. E soffriva non poco per gli irrazionali, ma comprensibili momenti di difficoltà emotiva dovuti alla paura di non poter far fronte alle esagerate aspettative concentrate sulla sua persona. Come ad un messia gli si chiedeva di domare le forze sociali, le istituzioni,gli interessi. Il Presidente pensava fosse un modo immaturo di personalizzare il potere e soprattutto che l’atteggiamento del popolo, non solo americano, potesse diventare un’arma a doppio taglio, che dopo un breve periodo di esaltazione se non porta a immediati e tangibili miglioramenti, è destinata ad esaurirsi. In questi momenti si faceva pesante l’incertezza per il futuro e Obama trovava utile attingere all’autostima che la madre era riuscita ad infondergli: - Barry, non vergognarti mai di quello che sei- ripeteva lei all’adolescente afro-americano Barack , che si era scelto perfino un diminutivo nel tentativo di fare chiarezza circa la sua confusa identità . Stessa mattina. Residenza del Senatore Rufferson Washington D.C. Il Senatore dell’Indiana Lionel Rufferson, prima di uscire, aveva fatto il giro del suo parco con l’ amata Rebecca, controllando di persona l’integrità della rete a piccole maglie che fasciava l’elegante cancellata in ferro battuto e tutto il perimetro della tenuta . La barboncina color champagne, che spesso rimaneva sola, di solito si aggirava annoiata annusando tra i cespugli, raramente si allontanava correndo verso la strada, anche se le piacevano i passanti, ai quali nonostante l’età avanzata, scodinzolava contenta come un cucciolo. Da qualche giorno invece, come avesse un appuntamento, si dirigeva con le orecchie al vento, verso l’angolo del giardino più distante dalla casa, dove un amico sorridente l’aspettava con degli irresistibili bocconcini . –vieni qui Rebecca— disse l’uomo porgendo il biscotto che teneva alto sopra il livello della rete all’ubbidiente barbone gigante. Il cane si poggiò alla rete con le zampe anteriori , permettendo così di sostituire il collare con l’altro che l’uomo aveva con se, identico nell’aspetto. --Solo un altro bella – disse sottovoce l’amico porgendole un ultimo biscotto che la barboncina sgranocchiò con voracità -- Ora vai, vai Rebecca, e mostraci i segreti del tuo padrone. White House Washington D.C. Adesso il Senatore si premeva il telefono sull’unico orecchio buono mentre pareva guardare con particolare interesse un punto preciso della dorata consolle in stile barocco che arredava il corridoio ampio quanto una sala da pranzo. Seduto compostamente su una poltroncina, si teneva a distanza di sicurezza dalla confusione che accompagnava il Presidente ad ogni uscita dalla Casa Bianca, poiché a fatica udiva la bassa voce gracchiante dell’agente Song, perfetta a rappresentare un posacenere pieno di cicche in un cartoon, che gli aveva riferito cos’era avvenuto nello studio ovale.- A Smokie non sfugge niente - pensò riponendo il telefono in tasca con una tale soddisfazione che quasi si dimenticò del perché fosse lì. –La Presidenza Bush! Ah, quelli si che erano bei tempi!-- sospirava di nostalgia accarezzandosi con una mano la calottina di capelli grigi, impomatati come un mafioso d’altri tempi guardando con orrore in direzione della sala ovale— il nemico allora non aveva le chiavi della casa degli americani e non sedeva dietro quella sacra scrivania-- intanto si lisciava, come faceva spesso, i baffetti con cui cercava di nascondere i denti troppo lunghi da topo. --Quando il Presidente non era uno sporco negro socialista, non era necessario serrare le fila repubblicane, o ricattare Senatori. Ma oggi, farei qualunque cosa in mio potere pur di non far approvare dal congresso leggi contro le multinazionali o il mio amico Lee— Il capo esecutivo della Exxon, un giorno gli aveva consigliato: —non metterti troppo in mostra Lionel, e potrai tenere le mani in pasta un po’ ovunque- e per ringraziarlo dell’appoggio in senato, aveva passato a una società del senatore il controllo di un cospicuo numero di azioni della società petrolifera- -che Dio lo benedica! Il mondo è pieno di schifosi socialisti, persino la carta stampata ne è appestata – L’articolo del Washington post , riapparve nitido nella sua mente come se avesse i fogli del quotidiano tra le mani. < La Corporatocrazia non è una società segreta, i suoi membri non si riuniscono per complottare, sono individui senza scrupoli che dirigono le multinazionali e si comportano come imperatori. Controllano i media , direttamente, o indirettamente con le pubblicità, controllando anche la maggior parte dei politici attraverso il finanziamento delle loro campagne elettorali. Non sono eletti, e la loro carica non ha termine, quindi non devono dare conto a nessuno del loro operato. Ma quando uno di loro è anche Vice- Presidente degli Stati Uniti tanto meglio. Il sistema è semplice ed economico: La banca mondiale fornisce i soldi ai paesi poveri, li fa indebitare in modo che non possano ripagare il debito. (tipico modo di agire anche del fondo monetario internazionale)Ma il denaro in verità non arriva mai a quel paese, va a invece a società per la costruzione di impianti energetici, industriali, porti. A beneficiarne sono solo una ristretta cerchia di persone ricche di quel paese, oltre alle nostre multinazionali , naturalmente. Se qualche capo di stato è recalcitrante,si accusa di terrorismo. Pronunciata questa parola magica, nel loro paese si mandano aerei, soldati ,infiltrati. Quasi sempre i capi di stato cedono, mentre coloro che non vogliono collaborare vengono assassinati. Chi sono i responsabili? Le cose sono così confuse che non puoi dire se i -killer economici - stanno agendo per una società privata o per il governo. Questa è la corporatocrazia. La nostra unica e ultima speranza?: al momento è tutta riposta in Barack Obama. --- Corporatocrazia!che diavolo di parola da socialisti è questa?- diceva col volto congestionato dalla rabbia dopo aver letto l’articolo e ridotto in mille pezzi il giornale -- non capiscono che in gioco ci sono i veri valori e lo stile di vita americano? Ipocriti di merda. Mi rifiuto di credere che i miei concittadini abbiano votato un ex militante di sinistra, uno che ha frequentato una scuola mussulmana, e che ci porterà al disastro!- Ma adesso per il senatore la priorità era riportare l’interessante notizia appena appresa all’uomo infiltrato nello staff Obama. Quindi rimase ad aspettare che Eos, insieme agli altri collaboratori, gli passasse proprio davanti per accompagnare il Presidente al prato sud dove stava per atterrare l’elicottero “ conosciuto come “Marine One”. Lionel aveva sulle labbra un avvertimento che avrebbe voluto lanciare a tutti coloro che giravano indaffarati per i corridoi : –Chi cazzo terrà a bada tutti i musi neri che vogliono impadronirsi della nostra nazione?— ma con uno sforzo enorme cercò di ricomporsi, almeno esteriormente. Stessa mattina Endrews Air force Base Il Boeing 747 altamente personalizzato nei suoi quattromila metri quadrati di superficie disposti su tre livelli, era ancora nell’hangar che incombeva sul piazzale con la stessa imponenza di un monumento. Le porte che occupavano l’intero lato del capannone erano socchiuse, mostrando soltanto al personale autorizzato, i segreti e l’esagerata ampiezza dei suoi interni dove regnava un’atmosfera di sacralità che incuteva timore e rispetto. Come se una presenza trascendente aleggiasse nell’aria. E anche la luce , che entrava in larghi fasci dai finestroni posti in alto, contribuiva a far sentire piccoli gli uomini che istintivamente parlavano sottovoce come peccatori all’interno di una cattedrale gotica. Il sottufficiale Rick McPray,capelli corti e mascella squadrata,era uno dei migliaia di militari assegnati alla base. Si riteneva un militare fin dentro le ossa, talmente ossessionato e divorato dalla paura che la sua domanda all’ottantanovesimo squadrone non venisse accettata, che nei mesi precedenti aveva contattato il capo del movimento razzista “Potere Bianco” sperando potesse aiutarlo a realizzare quel suo desiderio che stava diventando un’ossessione. –Sarei sceso a compromessi pure con il diavolo se Derek non ci fosse riuscito—pensò guardando i due boeing perfettamente uguali. Rick aveva incontrato Derek Drew,alcuni mesi prima in un bar di West Palm Beach. -- Questo posto è arredato come un saloon-- aveva notato Rick sedendosi di fronte a un uomo che era vestito e puzzava come se fosse appena sceso da cavallo. --Ho saputo che sei dalla nostra parte. Che hai prestato servizio in Iraq e vorresti entrare in marina — gli aveva detto Drew senza tanti preamboli, come fosse a conoscenza dei suoi più intimi segreti. -- Ma per adesso dovrai accontentarti dell’Airlift Presidenziale.--- Derek continuava a parlare con il tono di chi non ammette obbiezioni. Per Rick la scelta era prendere o lasciare. -- Conosco bene tuo zio Don . Mi ha parlato fino alla nausea della tua determinazione e dei tuoi progetti per il futuro. -- Rick non ebbe coraggio di aprir bocca. Non voleva irritare ulteriormente l’uomo che da sotto il cappello lo scrutava accigliato e piuttosto contrariato. -- Sai, Abbiamo simpatizzanti del movimento anche tra le alte sfere, non è un segreto. Per cui, se io volessi, potrei aiutarti. Ma devo essere chiaro con te ; non faccio mai niente per niente. Ed è probabile che in seguito io ti chieda qualcosa in cambio. E tu non potrai opporti. Ti è chiaro il concetto ragazzo? - Rick , in preda all’agitazione, non fece caso al tono minacciosi che il leader del più grande movimento razzista aveva usato. Carico di euforia, giocherellava con la saliera mentre con i pensieri già altrove annuiva con aria convinta. Pagare i conti non lo spaventava. - Io sono nato per servire, Signore- e come sotto ipnosi si lanciò a descrivere il suo senso di appartenenza alla più grande e complessa squadriglia del corpo dei Marine di cui sapeva tutto. L’uomo che lo stava ascoltando mostrava tutti i segni di uno che sta per perdere la pazienza, per lui Rick era solo una pedina . Il giovane militare accortosi che il suo interlocutore stava guardando con insistenza l’orologio , saltò subito alla conclusione del lungo discorso che si era preparato dicendo: -Per questo Signore non sopporto di avere un nero come Presidente. La nazione più potente del mondo, non può avere un afroamericano come Comandante in capo. Io credo nelle tradizioni e nei veri valori dei bianchi,nell’interesse degli Stati Uniti d’America.- i suoi occhietti celesti erano come sempre fissi e inespressivi, simili a quelli di uno squalo anche adesso che cercava in tutti i modi di compiacere Derek. -E’ una cosa oltraggiosa. E sono felice che anche tu la pensi come noi. -- —Vedi -- disse il texano lisciando distrattamente le falde del cappello Stetson da cui non si separava mai —Il movimento sta facendo grandi progressi, abbiamo più di cinquecentomila iscritti e simpatizzanti un po’ ovunque nel paese, e chi ci snobbava ora dovrà starci a sentire perché la nostra mobilitazione sta crescendo a vista d’occhio. -E per far conoscere il vostro movimento che mezzi usate?-- Chiese il ragazzo che non aveva mai visto la sua faccia in tv. --Beh, Noi non rilasciamo interviste , e non facciamo dichiarazioni che possano essere manipolate da giornalisti o editori di merda, no grazie ! non ne abbiamo bisogno! – rispose Derek scuotendo la testa rinsecchita, mentre salutava con un cenno della mano tutti gli avventori che entravano nel locale. -Ci serviamo di internet. Figliolo. E sono loro, i “bianchi” a cercarci. Ormai la gente è pronta a combattere per i propri interessi. C’è una tale rabbia in giro! Non ne senti parlare sui treni?, nei bar?, nei negozi?. Dobbiamo tornare alle origini, e spedire indietro tutti gli immigrati che stanno destabilizzando la nostra nazione! La rete ci permette di arrivare ovunque e di coordinarci. Pensa che sul nostro sito abbiamo più di 100mila contatti ogni giorno. -- Rick ascoltava affascinato l’uomo che intonava i suoi slogan come un predicatore .-- Se non ci organizziamo per tempo, noi, i bianchi, finiremo per essere una minoranza in casa nostra! Ed è la presenza di Obama alla Casa Bianca che ci allarma di più motivando le nostre convinzioni! —Rick, si guardò intorno. Derek non scherzava. I clienti del saloon erano tutti bianchi e sulla parete dietro il bancone c’era affisso il prologo della costituzione americana che recitava, we, the people, , -noi, il popolo- stampato su una bandiera sudista. - Ci servirà anche il tuo contributo figliolo. Ho dimenticato il tuo nome, come ti chiami? - Rick Signore. mi chiamo Carl Richard McPray. Rispose fiducioso il ragazzo biondo e lentigginoso -ti sistemeremo nel posto giusto Rick, e solo allora ti diremo quando e come dovrai intervenire. E’ tempo di agire. Ormai neanche il partito repubblicano ci rappresenta più. E sai cosa fa? Ci corteggia come una puttana!— Derek rise della propria battuta fino alle lacrime. Ma Rick non poteva sapere ciò che lo divertiva veramente era constatare quanto fosse stupido e ingenuo il giovane americano che sarebbe morto credendo negli ideali. - Io sono un vero cittadino americano, se riuscirete a farmi entrare nell’ottantanovesimo, potrete contare su di me. Per sempre!- Voleva a tutti i costi far parte del prestigioso corpo composto da mille uomini e donne, le cui mentalità addestrate per essere pronte a tutto trasformavano ogni decollo in una missione top secret. Questo era il suo sogno.. Da pochi giorni Rick McPray , come promesso da Derek, era entrato a far parte dell’Airlift Presidenziale e anche quella mattina, prima di entrare in servizio, aveva passato il consueto controllo a cui si sottoponevano tutti i militari che si accingevano a entrare nella base. Il detonatore in fondo alla sua sacca non era apparso differente dall’innocuo i-pad che il ragazzo aveva sempre con se, e in effetti ne aveva tutto l’aspetto. Rick sospirando di sollievo l’aveva posato con cautela sul ripiano di metallo dell’armadietto insieme ad altri suoi effetti personali, in attesa che si facessero vivi coloro che glielo avevano consegnato. – ora che il detonatore è all’interno della base devono farmi sapere la data del “gran giorno”-- Questo pensava, mentre un sorriso appariva sulle labbra. Si riscosse ancora incredulo di essere davvero lì . In alto, sull’ impalcatura mobile che circondava l’aereo, con l’ aria estasiata dipinta sulla faccia e il petto orgogliosamente gonfio , libero di pensare al segreto che custodiva. Si sentiva migliore lassù, superiore , rispetto ai suoi colleghi, che presto avrebbero avuto indietro la loro dignità di militari. -- grazie a me— vaneggiava canticchiando , mentre la sua mano giovane e forte impugnando un panno felpato lucidava a specchio, in sincrono con altre decine di militari, le morbide curve della preziosa fusoliera di cui non scorgeva la fine. Il livello di adrenalina che circolava nelle sue vene era tale, che un lieve tremore gli percorreva il corpo al solo pensiero di toccare lo stemma che incombeva sopra la sua testa. Adesso il suo compito poteva apparire di poco conto, ma Rick aspirava a ben altri incarichi, data l’importanza della missione che gli avevano affidato. Anche il suo amico d’infanzia John Dish gli aveva detto: - hai l’aria del capo, Rick. Abbiamo proprio bisogno di uomini come te in Marina- John, era anche lui della Florida e da un anno in forza nella Marine Elicopters Squadron come capo del cerimoniale del Marine One. Rick Invidiava soprattutto la professionalità e la sicurezza che tecnici e militari, simili a chirurghi in una asettica sala operatoria, mostravano muovendosi intorno ai banchi da lavoro sotto di lui. - E tutto così perfetto – pensava --solo l’uomo al quale è dedicato tutto questo enorme e bellissimo lavoro è sbagliato.-- Ma ora, accantonati per il momento tutti i pensieri Rick guardò controluce il risultato del suo energico lavoro; La fusoliera celeste dell’Aereo Presidenziale era uno splendore. Washington D.C. White House Il Presidente Barack Obama, aggiustandosi inutilmente l’impeccabile giacca blu sfoderò per il pubblico il suo miglior sorriso. Lo sguardo rivolto all’uomo dai corti capelli rossi racchiudeva tutta la fiducia che poneva nella sua guardia del corpo. Prego Signore- disse Larry con benevolenza. IL Presidente , era l’unico al quale riservava le sue rare sincere espressioni. Agli tutti altri mostrava ,senza alcun imbarazzo , la durezza dei lineamenti delicati sfigurati dall’acne maligna che in gioventù gli aveva reso la pelle butterata come la superficie del pianeta mercurio . Per la verità, con il passare del tempo, Lerry Palmer aveva imparato a servirsi della sua faccia, e come fosse un o scudo, dietro vi nascondeva vizi e virtù. La sua impenetrabile espressività, però ultimamente celava anche un’ulteriore preoccupazione per la sicurezza del Presidente. Poiché le più grandi corporazioni mondiali e l’ottava economia del pianeta tenevano sotto stretto controllo colui che era universalmente ritenuto l’uomo più potente del mondo. Da veri detentori del potere, gli avevano già lanciato un primo avvertimento. In molti, erano allarmati di avere alla guida del paese un intellettuale cosmopolita, dichiaratamente estraneo alla cultura individualista degli Stati Uniti, e trovavano nel suo passato,e soprattutto in ciò che era accaduto in Kenia, la dimostrazione che era un uomo pericoloso; e Larry avrebbe dovuto tenerne conto. Il Presidente si diresse verso la folla di giornalisti e collaboratori che lo attendevano in corridoio . L’insieme di voci che lo accolse aveva un piglio quasi militaresco. La crisi economica, era talmente grave che inconsciamente veniva trattata, con un piano degno di una guerra fredda. --Buongiono Signor presidente! -- Buongiorno Timoty , ciao Lawrence, - rispose Obama mentre continuando a camminare stringeva la mano al segretario del Tesoro, ed al capo delle strategie economiche. Le nomine dei due, ritenuti troppo affini al mondo della finanza , erano state duramente criticate dal pubblico. Ma le candidature erano state imposte senza tanti complimenti. Fino all’ultimo si era tenuto un estenuante braccio di ferro tra il Presidente ed alcuni ” grossi calibri” che avevano finanziato la sua ascesa alla Casa Bianca. Il gruppetto di uomini che lo seguiva, faticava a tenere il passo di Obama lungo i corridoi affollati. -Signore ,credo che non avremo scelta per quanto riguarda le banche. Non so quanto dei circa 750 miliardi di dollari, potrà essere utilizzata dai proprietari di immobili che devono evitare il pignoramento, Lawrence ed io stiamo mettendo a punto un programma più dettagliato che discuteremo quanto prima- -- Dobbiamo farlo! Sapete quanto la situazione sia seria- disse Obama fermandosi e guardandoli dritti in faccia— considerate che l’economia si sta deteriorando a vista d’occhio per non parlare della fiducia nel sistema finanziario — i due annuirono senza interrompere sapendo del fosco quadro economico --Io non faccio che parlarne alla gente, spiegare, cercare di convincerli, che la nostra è una buona strategia, ma alla fine, credo che saremo costretti a parare il culo a tutti. Compresi i responsabili di questo casino--. Il Presidente si sforzò di mantenere la calma. ---Forse la maniera migliore per affrontare il problema degli assets nocivi, perché non crolli il sistema, sarà immettere maggior denaro nelle banche. – Lawrence Summers, si sentì pervadere dall’angoscia – e che Dio ci aiuti se non lo facciamo. -- Si Signore, credo che non avremo altra scelta. Dai primi conteggi risulta che non ci basterà l’emissione di 100 miliardi di dollari in nuovi titoli del Tesoro!- Disse il segretario --Una parte di quella montagna di dollari deve assolutamente andare a sostegno ai cittadini o l’opinione pubblica non capirà che diavolo stiamo facendo- .Obama guardò l’orologio. La faccenda era troppo complessa e quello non era ne il luogo, né il momento giusto per mettersi a mercanteggiare. -- Ma ora devo andare, ci vedremo come da programma, e fatevi venire qualche buona idea! - tagliò corto il Presidente ribollendo di rabbia al pensiero del sistema bancario, che non era sicuro di poter riformare come avrebbe voluto. In ritardo sulla tabella di marcia della giornata e amareggiato per il poco spazio di manovra con il quale doveva continuamente fare i conti, pensava a quanto fossero vere le parole di John Adams pronunciate nel lontano diciottesimo secolo, ma ancora così attuali: “ ci sono due modi per conquistare e schiavizzare una nazione. Uno è con le spade, l’altro è con il debito. Rufferson vedendo il Presidente e suoi collaboratori che si avvicinavano avrebbe voluto gridare. --- Il mondo è un impero globale. La democrazia non esiste, poveri idioti--- –Chi cazzo terrà a bada tutti i neri che vogliono impadronirsi della nostra nazione?— con uno sforzo enorme cercò di ricomporsi, almeno esteriormente, mentre si univa al gruppo composto di soli uomini. - Signor Presidente, auguri per il buon esito del trattato- disse con gelida cortesia il senatore che avrebbe tanto voluto far ingoiare a Obama quel sorriso da simpatico furbetto con il quale ricambiò l’augurio . Lionel Rufferson, pieno di collera, lanciò un’ occhiata al suo uomo. Era rimasto un po’ indietro rispetto agli altri e si guardava attorno, preoccupato e innervosito dalla presenza del senatore repubblicano .Da quando era sotto ricatto, aveva sempre freddo e aveva perso diversi chili La voce di Rafferson che scandiva il suo nome in codice era poco più di un sussurro - Che cosa vuole adesso?- chiese Eos mentre il gelo gli saliva su per le caviglie. Il senatore trattenendolo per un braccio lo guardò dritto in faccia mentre gli ordinava in tono gelido –Il Presidente ha con se un dossier o dei documenti in una cartella verde. Scopri di cosa tratta. Se riguarda i fatti della Somalia dobbiamo saperlo. A tutti i costi. -- L’aereo, enorme e scintillante appollaiato sulla pista bagnata risplendeva sotto il sole invernale. A prima vista poteva sembrare un normale velivolo di linea; ma non lo era. I tecnici intorno al gigante sulla pista, come da routine erano strettamente sorvegliati dagli agenti della sicurezza, che intorpiditi dal freddo cercavano di scaldarsi battendo i piedi sull’asfalto bagnato, mentre parlando si lanciavano l’un l’altro dense nuvolette di vapore. Ogni tanto, alzavano lo sguardo sugli edifici circostanti dove erano appostati gli uomini delle squadre di contrassalto, che imbracciando M107 semiautomatici tenevano sotto tiro tutta l’area mentre veniva completato il rifornimento di carburante, appena arrivato sotto scorta in un’autocisterna chiusa da un enorme sigillo. Nel frattempo , Il pilota, di nuova nomina ad ogni cambio di amministrazione, per motivi di sicurezza nazionale era tenuto all’oscuro fino a poco prima del decollo circa il luogo di destinazione ed era seduto nella cabina di pilotaggio del boeing modello VC – 25 jet, versione militare del 747 – 200. Dirigeva la sua creatura, come la chiamava lui, verso la sezione della pista riservata ad accogliere il suo passeggero più importante. Il pilota colonnello Kreig , veterano e decorato pilota, designato dopo una serie infinita di test, pratici e teorici, manovrando con sicurezza parlava del nuovo incarico con il “secondo” al suo fianco.--- Sai David, ho trovato un motto per spiegare in cosa consiste la nostra professione. D’ora in avanti dirò: non siamo militari speciali che si occupano di una missione normale, ma siamo militari normali che si occupano di una missione speciale, non trovi?--- Infatti, quando Barack Hussein Obama II quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti fosse salito a bordo,il boeing anonimo sarebbe diventato l’Air Force One,ovvero l’aereo il più conosciuto e protetto del mondo. La caratteristica di Barack Obama era il suo sorriso gioviale. E si intravvedeva appena dietro al vetro blindato dell’auto che filava via. Sempre più spesso, il peso di tutte le responsabilità del ruolo di Presidente gli impedivano di mostrarsi sereno, ed anche essere chiuso in un blocco di acciaio , che doveva proteggerlo nelle più svariate situazioni, lo faceva sentire più prigioniero che protetto. Forse non era passato abbastanza tempo dal giorno dell’insediamento, e per un uomo come lui, che amava il contatto con la gente, l’isolamento risultava fastidioso. Il suo viso si rabbuiò seguendo il corso dei pensieri che si accavallavano uno sull’altro, e un’ infinità di problemi da risolvere fu ciò che vide davanti a se. Pensava continuamente al gran numero di persone che credendo al suo slogan l’avevano eletto Presidente, rendendolo onorato e orgoglioso, ma allo stesso tempo responsabile di ogni singolo cittadino che in piena crisi economica richiedeva provvedimenti urgenti spesso impossibili da attuare. E neanche sostenere l’economia del paese bastava all’americano comune che sul lastrico ,senza lavoro e molto spesso senza casa gli chiedeva: --e per me cosa fai?— La domanda, come fosse un’eco, gli risuonava nella testa giorno e notte. Anche ora, guardando il suo segretario seduto sul sedile di fronte, era concentrato nel formularsi mentalmente domande: --- Come posso risolvere la crisi economica quando causa ed effetto sono i personaggi della finanza, e di multinazionali potenti tanto quanto il Presidente stesso?-- I fiumi di promesse, di cambiamento, in cui si erano tuffate le folle di cittadini festanti durante i suoi comizi elettorali, si scontravano con la difficile realtà dei fatti; l’America non apparteneva più agli Americani. Il debito pubblico era stato comprato da nazioni in forte crescita come la Cina, che , con il 15% dell’intero debito, teneva gli Stati Uniti, ed il suo Presidente, letteralmente per le palle. Signore, - stava dicendo il segretario --- Siamo quasi arrivati -- Barack assorto nelle sue considerazioni, alla voce di Jack faticò a riscuotersi –Opporsi e ostacolare le lobby petrolifere , è questo che stiamo facendo con il trattato di oggi. Anch’io potrei rimanere vittima di un attentato o beccarmi una pallottola in testa— la visione del cervello di jfk sparso sulla decapottabile lo travolse come un treno in corsa mentre un brivido gelido gli correva sotto la camicia bianca.—Ma lo devo agli uomini e le donne che hanno rischiato la propria vita per questo giorno. - Ecco una brava giornalista - disse Jack commentando ad alta voce la parte finale di un articolo che stava leggendo sul quotidiano - Ma il nuovo Presidente metterà fine alla corruzione e ai clientelismi. Barack Obama, oltre a dissociarsi completamente dai suoi predecessori ,con la promessa di una politica innovativa, si distingue per il carisma e la fiducia che sprigiona, facendo di lui un faro, a cui tutto il mondo, come un naufrago in un mare tempestoso, guarda con grande speranza.— Che ne pensa signore? -- concluse jack. “che spero di non dover firmare il trattato con il mio sangue” pensò il Presidente. La macchina si fermò davanti alla scaletta dell’aereo. ll quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti scese dall’auto salutando la piccola folla e salì i gradini seguito dal suo segretario particolare Jack Milton che con il solito fastidioso scatto della testa cercava di tenere a posto la ciocca di capelli biondo cenere che inevitabilmente ricadeva sugli occhi —Jack, hai controllato che ci siano tutti i documenti necessari vero?— lo sguardo carico di apprensione del presidente era rivolto alle due valigette che jack teneva per i manici---certo Signore--- rispose lui—abbiamo controllato più volte. E’ tutto in ordine. —bene-- rispose il Presidente rilassandosi mentre entrando nella carlinga scintillante stringeva la mano al Comandate Colonnello Lionel kreig che gli dava il benvenuto. L’aereo era in volo. Il suo ronzio regolare e i volti sorridenti del personale di bordo che gestivano quella fortezza volante come un Grand Hotel, testimoniavano che tutto andava per il meglio. Barack si concesse un momento di meritato relax. Sprofondato nella comoda postazione di lavoro voluta dal suo predecessore George Bush ripensò sorridendo a ciò che sua moglie, sapendo quanto fosse teso, gli aveva detto salutandolo: – ecco qua caro,il tuo corteo è pronto! -- si lo vedo—aveva risposto lui guardandosi intorno --è meglio che vada,non vorrei si creassero ingorghi per colpa mia---disse stando al gioco Oh, succederà di certo! -- disse Michelle sorridente incrociando le braccia nude che spuntavano prepotenti dal vestito color verde mela , -- hai al tuo seguito decine di auto con personale della sicurezza, medici , ambulanze, carri armati, slitte trainate da cani ---e alzandosi sulla punta dei piedi finse di guardare lontano dicendo: – e là in fondo mi pare di scorgere anche un sommergibile!- ma non riuscì trattenere una risata - Come puoi pensare che vada tutto liscio?— --perche sono fortunato, e tu ne sei la prova--- rispose lui salutandola con un bacio. Il Presidente si accomodò dietro la scrivania gettando uno sguardo al bianco candore delle nuvole fuori dall’oblò, mentre l’ impeccabile e deliziosa hostess gli porgeva un vassoio con un hamburger, succo di frutta e caffè, preparati nella cucina di bordo che poteva sfornare un pranzo completo per oltre cento persone,tenendo conto dei gusti e delle preferenze di ogni ospite, Presidente in testa, naturalmente. Le sottili rughe sulla fronte scura del Presidente pian piano si distesero: --Andrà tutto bene, ne sono sicuro. Abbiamo sostenuto un enorme sforzo per trovare un terreno comune d’intesa e chiudere con successo questo accordo. E’ troppo importante per la storia americana,ed è sopratutto importante per la popolazione locale decimata e sfinita--- rifletteva vedendo davanti ai suoi occhi incupiti gli scheletrici corpi coperti di polvere ai bordi delle strade. Come catapultato all’inferno, avvertì nelle narici del naso largo il fetore dolciastro dei corpi di povere donne e bambini dilaniati dai colpi di kalashnikov che marcivano come immondizia. Dopo il viaggio in Kenia niente era più come prima. Cercò di riscuotersi ragionando sull’ambizioso piano di ridistribuzione delle risorse che intendeva attuare: - Uno ad uno affronteremo senza indugio altri pericolosi focolai di guerre nel sud del mondo. Alimentati dalle lobby e pianificati dai servizi per poter operare nell’estrazione di petrolio o di gas naturale in accordo con i regimi dittatoriali. pensava Obama, traendo un profondo respiro -- Fino a quando avranno maggior potere coloro che perseguono l’odio invece della pace? Occorre porre fine a questo circolo vizioso . Parte della mia credibilità dipende dal successo di questo trattato di pace, per cui le vere concessioni politiche che intendo concedere alla Somalia non sono in molti a conoscerle; almeno per il momento. -- un accenno di sorriso apparve sulle sue labbra piene, ed un senso di lieve euforia lo invase : --se tutto andrà bene sarà un inequivocabile segnale di cambiamento, e un brutto colpo per le lobby e i falchi che l’ex amministrazione Bush ha lasciato di guardia a Washington. Mi vorrebbero docile come un cagnolino e sono pronti a ricordarmi di quanto poco potere reale io possa veramente disporre—pensò Barack Obama mentre estraeva da una delle due valigette un paio di cartelle di documenti che voleva controllare, e anche il rapporto confidenziale del quale conosceva per sommi capi i fatti descritti. Ciò che gli interessava particolarmente era il lato umano e la sofferenza di coloro che si erano trovati coinvolti nel terribile gioco di potere. Il Presidente Obama si immerse di nuovo nella lettura del dossier, mentre un paio d’occhi lo scrutavano dal corridoio. Due mesi prima 7 gennaio Mombasa, Kenia Tomas Donner ora si sentiva veramente uno straniero. I’ aereo era ormai decollato e quanto era rimasto della sua famiglia era nell’ufficio caldo e sporco della polizia aeroportuale. Tom con il viso magro e pieno di spigoli affondato tra le mani, subiva gli occhi inquisitori dell’agente, che dopo aver scrutato il passaporto di Elizabeth, puntavano su di lui con un una luce accusatoria. -Quest’idiota mi guarda come se mi odiasse. O come fossi il responsabile della scomparsa di mia moglie --. pensò Tom con ansia e tristezza. -Signor Donner- disse l’agente sbattendosi nervosamente i passaporti della coppia tra le mani - al vostro arrivo in kenia, avete attivato le procedure indicate dall’ambasciata americana? ---Ecco, non sa cosa dirmi lo scimmione.- pensò, mostrando all’agente un sorrisetto imbarazzato che chiedeva comprensione. -Veramente no — -Noi, cioè Liz ed io, visitiamo il vostro paese ormai da molto tempo. E qui ci sentiamo un po’ come a casa nostra. Forse sottovalutandone i rischi. L’uomo incombeva su Tom benché superasse il metro e ottanta di altezza. -- No Signore, la risposta è no. – ribadì Tom vedendo che dall’altra parte della scrivania c’era un completo distacco sulla faccenda. -- Possibile che mi senta così ?Cosa mi sta succedendo?- Tom Donner era incredulo, tanto che gli occhi celesti, chiari e limpidi come un lago di montagna, ora apparivano come due pupille nere che si muovevano inquiete mentre ripeteva a se stesso: - non è possibile!- --E se fosse morta o fosse stata rapita? No! Non può essere successo veramente! -- Abbassò lo sguardo sui bambini che gli sedevano accanto impauriti, troppo piccoli per capire cosa stesse succedendo.—Dio mio, non è possibile, e adesso cosa faccio?— -- pensò Tom, che poco prima aveva controllato tutto l’aeroporto spingendo un carrello per i bagagli dove aveva sistemato Meggy e Clive che gli erano parsi pesanti come il piombo. Con le gambe molli come gelatina al punto che stentavano a tenerlo in piedi, come un pazzo aveva urlato il nome di sua moglie dentro tutte le porte della toilette delle signore. Pensando che Liz fosse stata male o fosse svenuta, aveva chiesto di lei agli inservienti mostrando la foto della bella donna bionda ritratta sul display del telefono, ma nessuno l’aveva vista. Così si era diretto di corsa all’ufficio della dogana, dove battendo sul vetro dello sportello, aveva mostrato la foto di lei all’unico agente nei paraggi, che osservando svogliatamente l’immagine per un tempo che a Tom era parso infinito, era arrivato alla sofferta conclusione di non averla mai vista. E l’uomo non mentiva; era appena entrato in servizio. Infine, avendo messo in subbuglio tutto l’aeroporto, era stato dato l’allarme. Così l’ edificio era stato controllato a tappeto da agenti che impugnavano gli sfollagente come mazze da baseball, sicuramente più adatti a cercare una partita di droga che Elizabeth Browing Donner, una turista scomparsa. Tom faticava a ragionare rimanendo freddo e razionale. — Liz è ancora qui, dovete trovarla. Non può essersi allontanata. Senza documenti come ha fatto ad uscire dall’area del Check-in? Mi dia una spiegazione.— Disse Tom indicando il passaporto della moglie sulla scrivania. --Signor Donner mi rendo conto della gravità del caso, ma sul passaporto c’è il timbro e il visto di uscita dal paese della signora Donner. Per noi è come se avesse lasciato il Kenia. Come lei afferma, sua moglie non può aver raggiunto l’ufficio della dogana che si trova oltre la barriera del check- in senza passaporto. Le sembrerà assurdo, ma ufficialmente, lo stato Keniota non ha responsabilità per quanto riguarda la sua scomparsa, diciamo, temporanea. Noi comunque faremo tutte le ricerche necessarie. ---. Tom attonito guardava l’uomo in divisa senza ascoltarlo veramente, era una situazione surreale. Nessuna delle persone con cui aveva parlato sembrava in grado di fare qualcosa di concreto, e lui si domandava a chi potesse chiedere aiuto. Il poliziotto fissandolo da dietro spesse lenti da vista gli stava parlando schiarendosi la voce per l’imbarazzo: Signor Donner, mi scusi ma devo chiederle … Tom gli prestò più attenzione --- Signor Donner, è solo un’ipotesi, ma devo chiederglielo. E’ sicuro che sua moglie non si sia allontanata volontariamente? forse per vedere un amico, qualche conoscente … --- Tom scattò in piedi facendo cadere la sedia all’indietro mentre cercava di sferrare un cazzotto in faccia all’agente che si piegò di fianco schivandolo. --brutto bastardo, come ti permetti. Di chi pensi di parlare? Capisci che mia moglie è stata portata via? —disse Tom a denti stretti, che adesso ripensava alla superficialità con cui , lui e Liz avevano sottovalutato le norme di sicurezza consigliate ai cittadini americani in Kenia. Con il viso paonazzo di rabbia e i ricci capelli arruffati si rivolse all’agente senza più pesare le parole — Ti ripeto che mia moglie non può essersi allontanata senza passaporto, senza denaro, senza niente, aveva con se solo la ricevuta delle sigarette che andava a ritirare alla dogana. Se è stata portata via con la forza, i rapitori dovevano avere i loro contatti all’interno dell’aeroporto—e aggiunse – o addirittura nella Polizia! –Ora basta. Sono stufo delle tue stronzate!—disse gridando-- chiama l’ambasciata americana. Subito! I bambini spaventati, si misero a piangere e strillare,mentre il poliziotto pensava seriamente di buttare in cella l’arrogante americano accusandolo di qualche reato. Avrebbe imparato un po’ d’umiltà. Tom che pareva aver perso il controllo si accasciò sulla sedia piangendo. –Mia moglie è scomparsa- per tom donner dare corpo a questa frase che descriveva la cruda realtà dei fatti era quasi impossibile. --voglio parlare con l’Ambasciatore-- disse infine con tono gelido alzando sull’uomo gli occhi asciutti.--- Stessa sera del 7 gennaio Somalia. La jeep sobbalzando sulla strada sterrata si avvicinava alla meta del viaggio. Il coperchio della cassa si mosse e Gothii, guardandoci dentro con gli occhi ancora colmi di meraviglia disse all’uomo con il basco che stava guidando : --Capo, la donna si sta svegliando¬.-- Quando arrivarono alla base ,faceva troppo caldo per la stagione di jiaal, sebbene l’ombra del tramonto avesse chiuso in fretta il pomeriggio dei primi di gennaio e Il sole fosse ormai sparito dietro il lato ovest del campo di addestramento . Faceva già scuro, ma nessuna luce segnalava la presenza di una baracca in lamiera, che nonostante fosse a pochi metri di distanza, appariva indistinguibile dall’edera selvatica che l’avviluppava. Era così profondamente incastonata sotto l’alta cupola di vegetazione nera che inghiottì anche la donna bionda,appena visibile a occhio nudo mentre ne varcava la soglia buia in braccio a un uomo che non era il suo. Benché Liz si trovasse ancora nelle braccia del possente Gothi, che l’aveva portata fin lì con l’orgoglio di chi esibisce un trofeo, aveva le membra stanche e la pelle fredda come un cadavere. Ed era talmente stordita che invece di aprire gli occhi, aprì la bocca e vomitò addosso al ragazzo che cambiò di colpo umore. Il Somalo avrebbe voluto spararle in bocca, ma imprecando per la figuraccia, si limitò a scaricarla a terra in malo modo pulendosi le mani sporche sui pantaloni già luridi, dopodiché voltatele le spalle nude, si avviò con aria mesta dai compagni che ridevano di lui. La fioca luce illuminava il terrore di Liz che riprendeva conoscenza posseduta da una voglia matta di urlare. Con tutta se stessa cercava di liberarsi del grido di disperazione che le chiudeva la gola come un tappo, ma non ci riusciva. Anzi, l’urlo che le montava dentro con la potenza di un tuono, gonfiava a dismisura il senso di oppressione che le gravava sul petto facendola respirare affannosamente, come se avesse fatto una lunga corsa. Spossata, non aveva nemmeno le forze necessarie a far girare intorno gli occhi iniettati di sangue, e faticava non poco nel mettere a fuoco il giaciglio puzzolente di grigia lana di capra dove era seduta. La coperta le fluttuava intorno come fosse sospesa nell’aria, dove ondeggiava insieme alla scritta blu impressa sul sacco di juta per i cereali che la ricopriva: – AIUTI UMANITARI ONU- . Con sgomento, facendosi coraggio alzò con cautelagli occhi , benché avesse nella testa una giostra impazzita e nella bocca troppa saliva nauseabonda che le colava senza controllo fuori dalle labbra grandi. Era sola. Legata mani e piedi con una corda. Nient’altro. Ma voleva rendersi conto di dove fosse. Mosse lentamente il capo in direzione di una flebile luce che filtrava dalla piccola finestra con i vetri rotti e seguendo con lo sguardo i nodosi tentacoli verdi che si attorcigliavano intorno ad alcune latte di ferro arrugginito riuscì solamente a formularsi una domanda: --dove sono?- Senza alcuna risposta e senza capire veramente che posto fosse quello che le pareva una prigione, cadde di schiena sul giaciglio, intanto che insetti di ogni foggia, approfittando della sua immobilità, le montavano addosso e si levavano senza posa formando disegni astratti nell’aria dall’odore infetto,sul suo terrore e sulla dilagante disperazione; ultime sensazioni da lei provate, prima che l’ignoto la sommergesse di nuovo trascinandola via di là. I Somali entrarono tutti insieme nella stanza in penombra. Si accucciarono a terra e alla luce di una lampada a gas, che posarono accanto al corpo della donna sedata dalla droga, si apprestarono a godere dei lineamenti occidentali che prima di allora non avevano mai osservato così da vicino. Per prima cosa vollero conoscere la natura del suoi spiriti. Così appoggiando i nasi larghi sulla pelle morbida annusarono a lungo la femmina, meravigliati che sprigionasse un odore differente da tutte le prostitute di Mogadiscio che avevano conosciuto . Disorientati, ma con le facce estasiate di fronte alle calde sfumature di colore che la frangia di capelli biondi emanava come possedesse una luce propria, frugarono con lo sguardo tra le ciocche alla ricerca della cute che non potevano credere fosse anch’essa bianca. Eccitati, leccarono con la punta della lingua le goccioline di sudore freddo che rendevano lucente la pelle del viso imbrattata dal trucco sfatto, assaporando la donna che in quel preciso momento aveva preso a lamentarsi. Si trovava nel vuoto del silenzio assoluto e la calma piatta che percepiva poteva essere l’eternità. -Sono morta. E’ dunque questa la morte? – si domandava terrorizzata. Sola, senza neanche il conforto dei ricordi, si vedeva immersa in un denso liquido scuro, che invece di bagnarla, come un pesante panno umido le avvolgeva il corpo leggero. In preda al panico, si rese conto di essere paralizzata, di non poter muovere un solo muscolo. Mentre si vedeva trascinata dalla corrente del fiume nero, sgambettava freneticamente alla disperata ricerca di una superficie, magari di un appiglio dove puntare i piedi o attaccarsi con le mani che tastavano tutt’intorno. Il timore era di non trovare niente, ma allo stesso tempo la paura di toccare con le dita qualcosa di viscido e schifoso le faceva ritrarre le mani. Ora, intanto che veniva risucchiata con il liquido in uno stretto cunicolo, quel qualcosa di viscido e freddo si stava attorcigliando intorno al suo collo che si gonfiava di vene . Haribo, il più giovane dei cinque, si rigirava tra le mani puzzolenti, le ciocche di capelli lisci e setosi rivolgendo il suo sguardo, torvo ma compiaciuto verso Gothi, che inginocchiato al suo fianco sfiorava gli zigomi e la bocca grande e sensuale della creatura bianca. Teneva la piccola testa, sproporzionata al corpo possente, piegata da un lato, e poiché non era abituato a controllare la sua eccitazione di ventenne, con le mani nere palpava i seni che accompagnavano il respiro del corpo incosciente e la pianura del ventre alla ricerca della pelle più bianca nascosta sotto i pantaloncini . La dose di Ketamina per uso veterinario, che i somali si erano procurati al mercato nero di Mogadiscio, era stata iniettata alla donna ormai da alcune ore, così alla sua mente che cercava di destarsi, arrivò il pungente odore degli ormoni maschili che impregnava i corpi sporchi e polverosi. Un tanfo talmente forte e acuto da sovrastare il puzzo di animale selvatico che c’era in sottofondo. Lei aprì gli occhi e inspirò un po’ di realtà. E fu come ingoiare uno schifoso boccone denso e compatto che sapeva di morte. Di cimitero. Di acqua putrida. Dove i fiori dimenticati da troppo tempo sulle tombe di persone poco amate, marciscono tristemente. Uno dei Somali, bisbigliando in un linguaggio per lei incomprensibile le porse un barattolo di liquido fangoso, che pur di togliersi l’acidità del vomito che le raschiava la gola, tracannò d’un fiato tenendo gli occhi azzurri, che non vedevano ancora bene, fissi sui due che aveva di fronte. Liz stropicciandosi la faccia con le mani legate, cercava inutilmente di mettere a fuoco le immagini e soprattutto i lineamenti delle facce scure che parlavano fra loro. Si rese conto però che le toccavano i capelli e che qualcosa le faceva pressione sulla pelle. Le mani nere malamente illuminate dalla flebile luce, le apparvero enormi scarafaggi che le infestavano la testa e le salivano su per le cosce infilandosi sotto i vestiti. Alla vista degli enormi insetti, Liz rimase immobile solo per qualche istante, come paralizzata dal terrore, poi, nonostante fosse legata, fece appello alla forza della disperazione e cominciò a dibattersi come un animale. Digrignava i denti sbattendo la testa sulla branda come in preda a una crisi epilettica, mentre gli uomini che la guardavano ridacchiando divertiti, bloccarono facilmente il corpo esile , che per la pochissima libertà di movimento rimasta, non poteva far altro che sussultare. Le erano talmente vicini mentre lanciavano grida sguaiate, da mostrarle che condividevano le origini somale impresse sulle teste lunghe dalla fronte bombata e il largo naso che forse proveniva da un’ altra etnia . Soprattutto condividevano la stessa espressione indecifrabile dipinta sui volti . Ma quando gli occhi di Liz che cercavano intorno un briciolo di umanità, incontrarono la faccia dura e crudele incorniciata dal basco verde e da una criniera di spessi capelli ricci, capì che sarebbe morta. Perché le apparve chiaro come il sole che la violenza dell’uomo , al di là della tragica situazione che ancora non era in grado di comprendere, era scritta negli occhi che le stavano di fronte; torbidi e gravidi di gonfie zavorre di pelle rugosa. Liz attratta dalle labbra piene che si muovevano mute, si staccò a fatica dalle magnetiche pupille nere acquattate sotto le aggrottate sopraciglia arcuate come quelle di un diavolo. La voce aspra la raggiunse parlando inglese --- Mi senti?, mi senti signora?, come ti chiami .Il tuo nome? Dimmi la nazionalità — La figura scura, scuotendola come un albero pensava: - hai paura? Ne hai tutte le ragioni, puttana ! -- ma per rispettare il piano da lui stesso ideato, imitava un particolare tono di voce intanto che sue mascelle si contraevano in un movimento simile a un tic che faceva vibrare la barbetta fitta e riccia che pendeva dal mento. Liz malgrado lo stordimento e i ronzii che le riempivano le orecchie, ricordava di avere già visto la mano con quattro dita che ora le stringeva il braccio con la forza di una morsa - brava, fammi vedere quanta paura provi- pensava eccitato. Del resto la donna sarebbe morta e non aveva molta importanza chi avesse creduto fosse il suo assassino. Anche se la decisione di interpretare fedelmente l’altro uomo, di sporcare l’immagine di Kalama, il capo dei guerriglieri della liberazione, lo divertiva come un gioco. Lei era talmente confusa che aveva bisogno di tempo per concentrarsi, anche solo per pensare chi fosse. – non ricordo. Non mi ricordo chi sono- Stessa sera della scomparsa di Elizabeth. 7 Gennaio – Mombasa, Kenia Sulla città africana e nella testa di Tom Donner stava calando un sipario nero. Lui non provò nemmeno a scacciare la terribile idea intanto che si apprestava a lasciare l’aeroporto . l’ Ambasciata Americana di Nairobi, contattata dalla polizia aeroportuale, aveva comunicato che in tarda serata Mister Clancy , un addetto del consolato , lo avrebbe incontrato in albergo. Così, dopo aver firmato la denuncia di scomparsa di Liz e lasciato all’agente di polizia il suo numero di telefono, Donner portò i bagagli al deposito . Prima di consegnarli, prese qualche indumento pulito per sé e i bambini, frugando in mezzo alla biancheria e agli abiti di Liz, che richiuse nelle valigie con un senso di impotenza e di rabbia. –Papa, dov’è la mamma? – Meggy che ben più adulta dei suoi cinque anni, aveva capito che suo padre non riusciva a trovare le parole per spiegarle cosa stava avvenendo. La bambina , trattenendo il fiato, si azzardò a porre la domanda, anche se abituata ai lunghi silenzi del genitore non si aspettava una risposta. – La mamma è andata via, vero?- Tom Donner prevedibilmente non rispose. Se avesse dato retta al suo istinto avrebbe spaccato tutto ciò che trovava sotto mano. Prese per mano Clive e Meggy che ancora lo guardava con aria interrogativa e in silenzio si diresse all’uscita. Da poche ore al campo 7 Gennaio - Somalia Il corpo di Liz Donner si agitava sulla brandina sudicia, intanto che la sua mente lottava contro terribili allucinazioni. Era ignara della sua identità, del rapimento,nonché dei guardiani eccitati che si intrattenevano con il suo bel corpo di trentenne che si contorceva. I Somali già da un po’ stavano godendosi lo spettacolo come fossero in un bordello e Cawi, più degli altri non poteva aspettare oltre; voleva assaggiare subito il bel bocconcino. Aveva cominciato a slacciarsi i pantaloni quando venne preso alla sprovvista dalle urla della donna che stava emergendo di nuovo dal pozzo buio dove era sprofondata. – lasciatemi!-- gridava -- chi siete?,- tentò di alzarsi ma gli uomini le bloccarono i polsi —lasciatemi! cosa volete da me?, aiuto!, aiuto!—gridava lasciando uscire finalmente tutto il fiato che aveva. Ma nessuno le rispose. Il capo, che poco distante dalla baracca stava rimontando il lanciagranate che era rimasto a bordo della jeep, accorse alle grida, pentito di aver rapito proprio una donna mentre bofonchiava a se stesso: - questa occidentale è posseduta dai piccoli demoni. Non porterà altro che guai— e vedendo l’eccitazione dei suoi uomini che già litigavano per lei, sentiva crescere il suo istinto omicida verso l’infedele isterica e sicuramente puttana, come tutte le donne. --- fatela tacere! altrimenti la uccido subito! Legatela, imbavagliatela e non perdetela di vista! — sbottò, mentre irritato dalle urla, lasciava infuriato la baracca prendendo a calci tutto ciò che trovava davanti a se. I quattro Somali, intimoriti dalla collera del Comandante, eseguirono l’ordine e immobilizzando la donna che ancora gridava e scalciava, riuscirono a iniettarle una nuova dose di ketamina, che la fece ripiombare nel silenzio. Cawi che aveva ancora i pantaloni calati chiese al più vicino dei suoi compagni: ------- che ne pensi Gothi, possiamo scoparcela anche se dorme, no?--- ----Se vuoi dire addio al tuo serpe, fai pure. Lo sai com’e fatto il capo. Vuole sempre essere lui il primo.— Ma Gothi non vedeva l’ora di raccontare ai compagni l’avventura in Kenia. -Non puoi immaginare Cawi,cosa abbiamo visto a Mombasa. Migliaia di donne. Tutte che girano mezze nude tra gli uomini. La paura e la curiosità ebbero la meglio su Cawi . -- hai ragione Gothi, non è il caso di rischiare. Ma ora descrivimi le donne che hai visto — Rimasto davanti al corpo inerme di liz, Cawi trafficò per un po’ con le mani sotto la shaal, mentre Haribo e Stigo, pensarono di sfogare i loro istinti al poligono in fondo al campo, poiché percepivano violenza e sessualità come un unico e indifferenziato istinto. -Haribo, vediamo se riesci a bucare il nostro amico. Scommetto una birra che neanche stavolta riesci a staccargli la testa dal collo-- disse Stigo, riferendosi alla sagoma che ritraeva il Presidente George Bush già crivellato di colpi. --Io vorrei avere davanti il corpo di Shariff Said.-- Disse Haribo --Come sai Stigo, prima di andare a Mombasa, siamo passati da Mogadiscio. Mbawi ci ha portati dall’ex ministro, Mister Said ,che vive in una villa alla periferia della città. Pensa che mentre noi siamo qui a soffrire la fame, lui vive da solo nella ricchezza, circondato da decine di uomini armati che difendono la sua vita. –Hei Haribo, come fai a sapere che è ricco?—domandò Stigo che sotto la luce dei riflettori alimentati da un potente generatore, sventagliò senza colpirle le sagome che si stagliavano a poca distanza. -- Mbawi ha detto che la villa ha trecento stanze, devono essere tante trecento ,no? E sono tutte piene di roba che brilla. Pensa, Mister Said portava al collo una collana d’oro così enorme che sembra una gomena.— Anche Gothi li aveva raggiunti. -- Si – disse aggiungendo la sua parte di racconto: -la collana gli sbatteva sul pancione e il medaglione che era appeso in fondo, pieno di pietre, mandava talmente tanta luce e bagliori, che Haribo e io abbiamo rischiato di diventare ciechi.- Tutta la birra che avevano in corpo trasformò in una fragorosa risata la loro rabbia soffocata dal destino, e dal rumore infernale delle mitragliette che sputavano una montagna di bossoli. Ogni colpo sparato costava cinque dollari, nonché la vita di qualche essere umano. Ma per il momento non erano loro a pagare. Mombasa, Kenia – La stessa sera della scomparsa L’ Hilton dove stavano entrando aveva le porte girevoli opache delle centinaia impronte che risalivano probabilmente a tempi migliori, poiché al momento l’albergo sembrava deserto e ad accogliere gli ospiti c’era solo un vago odore stantio di cucina e un rumore di stoviglie provenienti dal piano interrato. Tom mentre aspettava che alla reception apparisse qualcuno, fissava la carta da parati sporca e cadente visibile nonostante le luci basse che cercavano di risparmiare ulteriore vergogna al direttore. Ma a lui non importava, voleva solo qualcosa da far mangiare ai bambini e un letto. La camera che gli avevano assegnato, era nello stesso stato cadente della hall anzi, ancor peggio, poiché copriletto e pareti tappezzate di grandi fiori gialli e rossi davano le vertigini, mettendo a dura prova il senso dell’equilibrio. Con l’umore finito sotto le scarpe, Tom Donner si sdraiò accanto a Clive e Meggy .Non poteva più aspettare, doveva inventarsi qualcosa da dire ai bambini. Quindi cercando di sostenere il loro sguardo che sembrava perforarlo da parte a parte, disse con convinzione : ---la mamma ha avuto problemi con i documenti,ma sta bene, state tranquilli. Le ho parlato al telefono, ha detto che tornerà prestissimo e che vi vuole tanto bene.--- Quella bugia detta con la voce rotta dall’emozione, gli pesava come un sasso, ma Meggy non sapeva se credergli o dubitare delle sue parole – cosa sono i documenti papà? - - sono dei fogli di carta sui quali è scritto come ti chiami e dove abiti. La mamma li ha perduti e adesso è in un ufficio che è un po’ distante da qui. Domani gliene daranno degli altri per poter tornare a casa. Quindi è tutto ok. -- ---- Allora papà, perché sei così spaventato?— chiese Meggy lasciando il padre senza fiato. Intanto Clive con una espressione grave sul visetto paffuto gli evitò di farfugliare altre pietose bugie: -Papa, quando domani torna la mamma non gli diciamo che ci hai permesso di mangiare tutte quelle schifezze, come le chiama lei, Anche se a me le patatine fritte piacciono tanto e non mi sembrano per niente una schifezza — –e se rimanessi solo?, sarei in grado di prendermi cura di loro? Il solo pensiero lo inorridiva, ma sorridendo disse — Già, anche a me le patatine piacciono molto. Sapete cosa faremo? Domani, chiederemo alla mamma di rimanere a casa. ma una volta ogni tanto, badate bene!, mentre noi tre, usciremo a mangiarci un po’ di schifezze. Sono sicuro che a lei non dispiacerà.— Tom aveva riempito di bugie tutti coloro che gli erano più cari. Oltre la puerile scusa che si era inventato per i figli, ai suoi genitori e al padre di Liz, aveva raccontato che il mancato rientro a Washington era a causa di un problema con la conferma del volo. Aveva mentito nonostante temesse che la notizia della scomparsa di un’americana non avrebbe tardato a comparire nei notiziari della sera. Ma Tom al momento era assolutamente disinteressato a trovare un modo meno traumatico per informarli. I bambini erano tranquilli e apparentemente convinti dalla spiegazione del padre, si addormentarono in un attimo. Quando Tom fu sicuro che stessero dormendo profondamente, si alzò e andò in bagno a lavarsi –devo cambiarmi almeno la maglietta- pensò aprendo la cannella sporca. Lo specchio sopra il lavabo del bagno gli restituì l’immagine di uomo dall’aspetto tremendamente provato. – Dio ti prego, aiutami. – Era arrivato il momento di avvertire l’avvocato Colan, suo amico, ma in modo particolare della famiglia di Liz .Si fece forza pensando che forse Mike poteva andare di persona dalle loro famiglie, togliendolo dall’impaccio di annunciargli l’incredibile verità. --E’ così Mike, mi senti? E’ terribile Mike!, Liz è scomparsa! --Cosa è successo a Liz? Dannazione Tom, cosa dici? Ti sento malissimo, la comunicazione fa schifo! --- disse Mike che al di là dell’oceano teneva la mano sul nodo della cravatta che si stava sistemando. Nonostante fosse quasi settantenne, aveva un fisico imponente , pelle liscia e sulla testa tanti capelli che emanavano un leggero odore di menta. – Mike, siamo a Mombasa in Kenia, ricordi?--- disse Tom quasi urlando --L’Africa è proprio un paese di merda! Adesso ti sento . Certo che ricordo dove siete. Tom riuscì a spiegare cosa era successo a Liz nonostante la precaria linea telefonica. -ti prego mike, avverti i miei e il padre di Liz, ma non farne parola con nessuno altro,è in gioco la vita di Liz –Che vuoi dire Tom?- Che ti passa per la testa?- -- Non lo so, forse è meglio non fare tanto baccano. Chi ha preso Liz potrebbe spaventarsi e…. --Tom, lascia fare me. Chiamo subito il dipartimento per questa storia del visto e contatto il mio amico senatore . E’ una persona fidata ed è la persona giusta per noi. Capirai, è una vita che siede in Senato. Voglio sapere come muovermi lì, nel terzo mondo che voi amate tanto-- --Non vorrai chiamare Rufferson?— Chiese Tom saltando in piedi preoccupato -Certo - risposte Mike stupito per la reazione di Tom -ha conoscenze in ogni angolo del mondo .— Tom sentiva scricchiolare il terreno sotto i suoi piedi -- Mike, non posso spiegarti il perché adesso, ma ti prego aspetta a metterlo in mezzo. —devo dissuaderlo dal chiamare Lionel. A tutti i costi.- pensò Tom .– Lo sai Mike, quando si mette in mezzo la burocrazia diventa tutto più difficile.- Tom sudava come fosse chiuso in una sauna - Cerchiamo prima di capire con chi abbiamo a che fare, non capisci Mike?—non voleva scoprirsi. Sotto le luci giallastre del corridoio dove si era recato per telefonare, le sue guance apparivano più incavate del solito. -No, non capisco. Ma di cosa parli! Ti rendi conto che tua moglie è scomparsa! - - Certo. Per questo ho firmato la denuncia di scomparsa, e ho chiamato in aiuto un agente della polizia locale— - Chi? Tom, cos’hai combinato?- chiese Mike con disapprovazione - Mike, stai tranquillo, Jeff Kiptanui è il figlio di Heleni, una nostra amica, ti abbiamo parlato di lei, ricordi? L’ho interpellato perché voglio sapere se ci sono stati altri rapimenti di cittadini americani. lo sappiamo bene Mike, che a causa della nostra politica estera l’antiamericanismo è alle stelle. --- aveva l’animo agitato e si passava continuamente la mano nei capelli mossi e gonfi, mentre era dispiaciuto che la sua affermazione avesse offeso l’amico convinto repubblicano. --Sono confuso non so quello che dico, ti prego, scusami! Ma tutto mi pare impossibile. Liz sembra svanita nel nulla. Nessuno che l’abbia vista o le abbia parlato. Di una turista, per di più americana, non frega niente a nessuno. Le autorità del posto ipotizzano che potrebbe essersi allontanata volontariamente, capisci che stronzata? - certo le autorità tendono a scaricare le proprie responsabilità. E tenteranno di tenere nascosta il più possibile la notizia per non sconvolgere il business del turismo. T i immagini cosa accadrebbe se Liz fosse stata prelevata con la forza dall’interno dell’aeroporto? --Ascoltami bene Tom,capisco che sei sconvolto, ma non mettere in mezzo altre persone. A cosa ti serve sapere quanti turisti hanno rapito quei kenioti di merda? Al passaporto di Liz penso io, se loro non vogliono muoversi io so cosa fare, perdio! E vuoi un consiglio? Non perdere tempo. Ogni ora che passiamo senza agire concretamente aggrava la situazione. Torna a Washington .Cosa stai a fare in mezzo a quegli zulù, o che altro diamine sono!Porta i bambini dai tuoi, e vieni in ufficio da me , vedrai che insieme troveremo chi ci potrà aiutare. -Si, hai ragione . Ascolta Mike, devo incontrare tra poco un addetto dell’ambasciata, verrà qui in albergo per raccogliere la mia deposizione. Come devo comportarmi? -- chiese Tom, mentre si alzava dalla sedia per l’ennesima volta. --Hai qualcosa da nascondere Tom? -- No, certo che domanda del cazzo mi fai?-- -- Allora tieni un atteggiamento collaborativo. E’ importante dare una buona impressione all’ambasciatore-- Disse Mike -- Ciao Tom, stai tranquillo, ti richiamo più tardi. --grazie Mike--- Tornando in camera gli risuonava ancora in testa la domanda che gli aveva posto Mike – hai qualcosa da nascondere Tom?- Si rispose sobbalzando per la spregiudicatezza dei suoi pensieri:Il probabile licenziamento, la polizza assicurativa, Penelope. Notte del 7 Gennaio Al Campo di addestramento in Somalia A poca distanza dal lato sud dove Liz giaceva, c’era un’altra baracca nascosta dalla vegetazione che Mbawi usava per le riunioni, per mangiare e dormire. La posizione del rifugio, era nota soltanto ai cinque somali che occupavano stabilmente il campo e ad alcuni degli uomini ai quali dovevano insegnare le tecniche di guerriglia. Mercenari spediti al campo di addestramento di Mbawi, da chi voleva impedire che il potere dell’elite Somala dominante venisse messa in discussione. L’interno era un vero tugurio. Odore di corpi sudati e di cibo marcio saturava l’aria, mosche banchettavano indisturbate sul pavimento ingombro ronzando così forte sugli avanzi stantii di riso e banane e sui bicchierini di the sporchi delle ultime scorte di latte di cammella, che quasi coprivano l’audio del televisore acceso che nessuno ascoltava. Gli uomini in attesa degli ordini di Mbawi, si aggiravano per la stanza e nonostante fossero a torso nudo sudavano copiosamente, faticando non poco a trattenere le armi tra le mani . Il loro capo, sfidando il caldo infernale, non indossava lo shaal come gli altri, ma stava sdraiato su un tappeto lurido, vestito di una tuta mimetica chiusa fino al collo, basco e stivali anfibi. Il viso scarno aveva la consistenza del cuoio e due occhi perennemente in movimento. Per calmarsi, si affidava al rituale della lucidatura del suo coltello. Un sibilo gli usciva dal naso largo e schiacciato che troneggiava ampiamente sulla faccia, intanto che ripassava a bassa voce il piano. Tanta era la forza con cui spingeva l’aria tra i denti serrati, che dalla bocca le parole uscivano piegate, come le mani di un carcerato avvinte intorno le sbarre di una prigione . Imprecando e bestemmiando un dio che non temeva, Mbawi pensava alla sua vendetta. Somalia – Campo di Mbawi Una settimana prima del rapimento Da sempre a quell’ora, i raggi obliqui del sole al tramonto si infilarono nella baracca da una larga fessura .Dalla lamiera rovente, battevano sullo schermo del televisore acceso oscurando come un’eclissi, l’immagine della giornalista occidentale . Rimasta senza video , la voce annunciò i titoli delle news: --Somalia. I Guerriglieri della Liberazione ed il sedicente capo Kalama hanno rilasciato oggi gli ostaggi . Il rapimento risalente ad una settimana fa, era avvenuto durante l’ennesimo attacco dei guerriglieri Somali, che sempre più spesso aggrediscono il personale della stazione estrattiva a poca distanza dalla costa -- la notizia fece saltare in piedi Mbawi, che gonfio di rabbia e sputando maledizioni, prese una bottiglia scagliandola in direzione del televisore. La signorina continuava a leggere: ---- il rapimento, dichiarano i Guerriglieri, ha lo scopo di attirare l’attenzione sul paese depredato delle risorse energetiche.- ---------------Difendiamo il cibo per i nostri figli! - è il grido dei guerriglieri. I due europei, operai della piattaforma petrolifera, dichiarano di stare bene e di non aver subito violenze.—Ma la situazione a Mogadiscio è peggiore che durante la guerra civile e descritta così dal giornalista Abukar Aldabri: -- ogni volta che si esce di casa lo si fa a proprio rischio e pericolo, senza essere sicuri di tornare. L a maggior parte dei negozi è chiusa, le scuole hanno sospeso le lezioni e metà della gente è scappata dalla città. L’esodo è così massiccio da aver fatto raddoppiare i costi di tutti i mezzi di trasporto, dagli aerei ai minibus. Ogni ora, in ogni strada, i miliziani rubano, stuprano, uccidono in totale impunità. La polizia, con la scusa di raccogliere armi, perquisisce casa per casa e ruba radio, tv, soldi, tutto quello che trova. Invochiamo l’intervento dei caschi blu dell’onu – I quattro somali alle dipendenze di Mbawi si guardarono preoccupati muovendosi a disagio. Non avevano capito granché della notizia, ma il nome di Kalama era bastato a metterli in allarme. Mbawi, ribollente di rabbia passeggiava nella stanza ad occhi bassi, le mani intrecciate dietro la schiena. – questi Guerriglieri del cazzo vanno fermati una volta per tutte! kalama il bastardo deve finirla. Questa storia degli ostaggi si sta facendo sempre più pericolosa. Il problema, è che Kalama e i suoi, non torcono un capello alle loro vittime, Così gli occidentali, quando vengono rilasciati sono pronti a fare da testimonial per il gruppo Alcuni di loro sono persino diventati sostenitori! Scommetto che il mondo e anche il Presidente Americano appena eletto, guardano quasi con comprensione a quella banda di smidollati.- --Vogliono imitare i guerriglieri del delta del Niger. Altro gruppo di idioti !--- Gothi, passandosi le mani sulla testa appuntita azzardò il paragone. Quel poco che sapeva lo aveva appreso a Chisimaio . La notte nera che Mbawi si portava sempre appresso e le sue nove dita risparmiate dalla lebbra che giocherellavano con il coltello lungo e pericoloso come un mamba, erano la fonte della maggior parte dei timori dei quattro ragazzi. Come fantocci senza volontà sedevano per terra, ma gli occhi neri tradivano la preoccupazione con cui seguivano il capo che si muoveva nella stanza. La loro vita si basava su un principio di facile applicazione ; compiere qualsiasi crimine per chiunque li pagasse. Nient’altro. I giovani uomini, non facevano parte dei gruppi combattenti fanatici della jihad, né appartenevano a organizzazioni di Shabaab,vicine ad Al-Queda che detenevano ormai il potere nell’ottanta per cento del territorio somalo, infiltrati come un tumore anche nella popolazione civile di Mogadiscio. Né nascondevano le loro cattive azioni dietro false ideologie. Volevano solo sfuggire a tutti i costi dalla miseria e dalle tribolazioni che li accompagnavano fin dalla nascita. Rifugiati nel loro stesso paese, vulnerabili tra i vulnerabili. Profughi tra i milioni di persone bisognose di aiuti alimentari che la guerra civile ha spogliato di tutto, anche della protezione del proprio clan. – Quando l’acqua è poca, puoi berla solo con le tue mani—recitava un proverbio somalo . Anche Mbawi , era un disperato, un mooryan. Ovvero uno dei trecentomila miliziani che a Mogadiscio si erano macchiati di violenze inaudite, lasciando sulle strade della città dopo cinque mesi di scontri, quattordicimila morti e trentamila feriti destinati a diventare anch’essi cadaveri. Anche lui in fuga dal destino, si era messo in affari con Shariff Said. Mister Said, come lo chiamavano in città, era l’ideatore del corpo dei miliziani e vero detentore del potere a Mogadiscio. Sostenitore del partito islamico con il quale condivideva l’interesse strategico a che la costituzione di un vero governo di unità Nazionale non vedesse mai la luce. Shariff Said era specializzato nel rendere poco comprensibili e confusi gli avvenimenti , e costituendo bande di miliziani armati che seminavano terrore nella popolazione guerreggiando tra loro, voleva portare l’opinione pubblica mondiale a non potersi più schierare con certezza dalla parte delle vittime, poiché tutti sarebbero apparsi vittime e aggressori allo stesso tempo. In questo scenario surreale, Mister Said e i Signori della guerra, assoldando nutriti gruppi di mercenari, da tempo avevano guadagnato terreno su tutti i fronti. Così, giornalisti di tutto il mondo specializzati in geopolitica, avevano abboccato all’amo di Shariff Said . Analizzavano l’ inestricabile situazione Somala seguendo la storicità dei Clan,ma che in realtà, i vari scontri armati non possedevano. E solo i giornalisti che scavando più a fondo, oltre le lotte tra Clan rivali e le contrapposte ideologie degli svariati movimenti religiosi ,mettevano in mezzo i servizi segreti francesi e americani, giungevano al nocciolo del problema . Ossia, la molla che spingeva gli uomini in gioco, era la solita squallida, longeva e volgare brama di potere. In questo caso il petrolio. Mbawi, era la pedina più umile e fetida di questo gioco. Ma ne faceva comunque parte .Era un mercenario, un assassino, che stanco e nauseato dalla guerriglia urbana aveva preferito occuparsi del campo di Shariff Said, che gestiva come fosse di sua proprietà. Ora, Mbawi si sentiva calato nel pieno delle sue responsabilità e continuava a parlare camminando avanti e indietro nel ristretto spazio della baracca. --Il presidente Obama, ancora non ha capito chi comanda qui in Somalia, e le bravate di Kalama potrebbero fargli pensare che è giunta l’ora di rifilarci un bel governo democratico. Ne avevo già parlato a Shariff, a Mogadiscio. A lui non piace la piega che la cosa sta prendendo e soprattutto ho saputo che la cosa non piace alla Exxon, che vuole trivellare in pace quei maledetti pozzi. Kalama e i suoi stanno facendo troppo casino — disse alzando il mento verso il televisore da cui avevano appena appresa la notizia sui guerriglieri -- Quindi per combatterli ci serviremo degli islamici che vengono ad addestrarsi in Somalia. Said, il nostro caro ex-ministro, ha promesso dollari e carta bianca per annientare Kalama e i guerriglieri. Ha detto che Il terroristi ci aiuteranno a gettare un po’ di polvere negli occhi dell’opinione pubblica sulla guerra che ci inventeremo. Gothi gli si avvicinò porgendogli una birra: -- Tanto lo sappiamo tutti che si interessano di noi somali, solo per la marea di petrolio che è stata scoperta sotto i nostri culi neri!.— ---Si Comandante, tutti vogliono una parte di bottino!—rincarò stigo - Kalama sta attirando gli sguardi di chi non dovrebbe vedere —concluse mbawi battendo con forza un pugno sul tavolo. Mbawi e Kalama,capo dei guerriglieri della liberazione provenivano dalla stessa tribù. La tradizione orale raccontava che le donne del loro villaggio, fossero le leggendarie e bellissime ragazze Oromo che unitesi con gli sheiki provenienti dalla penisola arabica, avrebbero dato vita a tutti clan più importanti. Mbawi e Kalama, loro discendenti, erano nati quando il generale Barreh salì al potere in Somalia grazie a un colpo di stato. Mbawi seduto per terra piluccava dei datteri scacciando sciami di mosche che si posavano ovunque . Guardava, interrogandosi sul futuro, i suoi uomini che fumavano sigarette straniere bevendo una birra dietro l’altra . –ho parlato con Hans – Mi ha confermato l’arrivo degli M32. Se tutto andrà bene ci troveremo domani al porto. Però prima di incontrarlo io e Gothi andremo in città a ritirare un po’ di dollari --.afferrò la bottiglia bevendo una generosa sorsata che lo inondò di un inatteso ottimismo -- abbiamo fatto un buon lavoro con l’ultimo gruppo di Libanesi. questa volta ci sarà qualche cosa anche per voi— Cawi Aribo e Stigo , ridacchiavano sfregandosi le mani. Se ne fregavano di chi fosse a pagarli. I soldi di Al Qaeda che lottava per creare tribunali islamici e la rimessa in vigore della legge della sharia, o di Mister Said non valevano meno. Gothi si arrovellava il cervello cercando di compiacere in tutti i modi il capo. - perché non proviamo le nuove armi sul campo dei guerriglieri della liberazione?, così non sprechiamo le munizioni !E intanto riempiamo di buchi quel campo. I vermi suoi amici potranno nascondersi dove meritano: sottoterra! ha ha ha— concluse Gothi caricando un invisibile lanciagranate. Anche gli altri ragazzi imitandolo come scimmie si piegavano in due dalle risa. Mbawi , guardando fuori dalla stanza, pensò che fosse una idea divertente, mentre i margini del campo di addestramento erano spariti nel buio. Il sole dopo aver infiammato il cielo all’orizzonte era tramontato lasciando posto all’ora ideale per gli agguati e le imboscate . Il comandante era già spazientito dal suo gruppo che ancora rideva sguaiatamente --Cawi, Stigo, è l’ora della guardia! Andate e tenete gli occhi aperti. Se vi addormentate, e come durante l’ultimo vostro turno trovo qualche bastardo che ruba nel campo, vi taglio le palle. — disse affettando l’aria con il coltello. I due uscirono senza farselo ripetere una seconda volta. Conoscevano bene il carattere di Mbawi. A Mombasa lo avevano visto decapitare una donna colpevole soltanto di avergli rubato una banconota mentre lui giocava a carte. La testa ridotta ad un cranio spolpato dagli animali, era ancora dove lui l’aveva messa, in bella vista nell’incavo del tronco di un albero a far da monito a tutti. Ma Mbawi non era soddisfatto, voleva chiudere definitivamente la partita con Kalama. non basta! – diceva con la bava alla bocca – non mi basta distruggere il campo dei guerriglieri, dobbiamo anche distruggerli agli occhi del mondo!- - E come facciamo comandante? – si azzardò a domandare Haribo Mbawi aveva gli occhi febbricitanti –dobbiamo rapire qualcuno. Faremo credere alla stampa che sono stati i Guerriglieri. Invece portiamo qui l’ostaggio e ci divertiamo. Sappiamo bene come fare, vero?- chiese strizzando gli occhi come avesse perso il contatto con la realtà e nel contempo abbandonato l’ idea di servirsi dei terroristi islamici. – E dopo lo ammazziamo – aggiunse il ragazzo ,con un tono di voce leggiadro come se stesse raccontando una storia --Si! Rivendicheremo a nome loro il rapimento restituendo il cadavere torturato con la firma dei Guerriglieri della Liberazione. Voglio vedere a quel punto chi nutrirà ancora simpatia per loro! — concluse Mbawi mentre la vendetta stava prendendo forma. Gothi era sempre più eccitato: –Comandante, possiamo prendere in ostaggio una donna? occidentale?, magari bionda!, mi sono sempre piaciute le donne bionde! - Anche a me – disse Haribo con occhi sognanti Mbawi, soddisfatto già pregustava la sconfitta di Kalama – in fondo è la mia personale vendetta e voglio godermela tutta -- -- -- Andremo a scegliere una bella occidentale bionda, nel posto più affollato di turiste che c’è in Africa.- sentenziò deciso --Dove, comandante, dove?—chiesero i suoi uomini eccitati e felici come bambini .-- All’ aeroporto di Mombasa.--- Fischi e urla di approvazione invasero la baracca e si udirono per tutto il campo. Gli uomini di guardia intorno al perimetro accorsero preoccupati – che succede comandante? – appena furono messi al corrente della decisione, le loro sguaiate grida di gioia si aggiunsero alle altre nell’aria calda e pesante. Mombasa, Kenia 7 gennaio Hotel Hilton La sera del rapimento --Caro signor Donner---disse l’uomo dai capelli bianchi, distinto e corpulento che presentandosi gli stringeva la mano --,Sono John Clancy. Ho parlato con l’ambasciatore. Mi dispiace moltissimo per quanto le sta accadendo— --grazie , il problema è che non so cosa mi stia accadendo —rispose Tom con un filo di voce abbassando la testa Signor Donner,-- disse Clancy mentre cercava di far entrare nella avvolgente poltroncina di finta pelle rossa tutta la sua ciccia ---abbiamo già attivato tutti i nostri canali diplomatici. Indagheremo in stretta collaborazione con il governo keniota sulla scomparsa della signora Donner anche se tecnicamente mi hanno informato di questa , diciamo fantasiosa, teoria del visto sul passaporto. In attesa di notizie dal personale sul campo, che stia tranquillo non tarderanno a giungere, ho bisogno che lei mi faccia un quadro completo della situazione.— Tom prima di allora non aveva mai provato una simile sensazione di impotenza. Si sentiva come un cieco lasciato solo in un posto sconosciuto. -- Avete dei contenziosi in sospeso o avete avuto dei problemi durante il vostro soggiorno? Per caso sua moglie ha ricevuto delle attenzioni particolari da parte di qualcuno? Qualche lite con il personale dell’albergo o in qualche villaggio che avete visitato?-- Tom rispondeva con un no a tutte le domande, mentre Clancy prendeva nota sfarfallando sulla sua carta intestata con una penna Cartier acciaio e oro. - Signor Donner, ci pensi bene. E’ molto importante anche il minimo particolare. Anche ciò che le potrebbe sembrare trascurabile. Intanto ripercorriamo insieme le ultime ore, non dobbiamo tralasciare niente. -- Dunque, mi faccia raccogliere le idee,- Tom cercando di concentrarsi sugli avvenimenti risentì il gelo con il quale, da tempo , guardava sua moglie. Poche ore prima, nonostante lo scenario idilliaco dell’acqua trasparente e della barriera corallina che per chilometri ne increspava la superficie abbagliante per il sole, aveva guardato senza provare alcuna emozione il corpo bagnato di Liz, che sinuoso e carico di eleganza incedeva verso di lui. -Dio mio, perché non riesco più ad amarla? Liz è dolce, comprensiva ed è la madre dei miei figli, eppure guardandola vedo solo una bellissima estranea --Ecco, questa mattina per il rientro a Washington abbiamo messo le valigie fuori dal bungalow, dopo aver dato in giro un’ultima occhiata. Per noi è sempre triste lasciare l’Africa, ci veniamo da anni e al momento della partenza, specialmente Elizabeth è triste come se dovesse lasciare un parente.--- ---Si, vi capisco, anch’io amo l’Africa, e per questo spero vivamente di rimanervi anche sotto la Presidenza Obama, comunque.. torniamo a stamani, avete fatto colazione? Incontrato qualcuno?--- --- Si , siamo andati al ristorante e Hamed, il cameriere che sapeva della nostra partenza è stato più gentile del solito, ci ha fatto trovare sul tavolo un commovente biglietto di saluti e dei sacchetti di frutta secca per i bambini. Lo so che spesso i dipendenti lo fanno solo per la mancia, ma Hamed mi sembrava sincero.-- -- Il villaggio Signor Donner è il Coconut vero? Mi ripeta il nome del cameriere…. il faccione rosso di Clancy gli si avvicinò. Non riusciva a nascondere la disapprovazione nei confronti della polizia Keniota -- veramente queste domande spetterebbero alla Polizia, ma lei ha vissuto in prima persona la loro inadeguatezza in tali situazioni-- –--Si certo. Del cameriere conosco solo il nome, Hamed, e porta al polso sinistro tre braccialetti di perline verdi rosse e nere..- Tom rispondeva di malavoglia alle domande che riteneva inutili al fine di ritrovare Liz. ma come raccomandava Mike doveva mostrarsi collaborativo. Mister Clancy sembrava particolarmente interessato alla loro amicizia con Heleni, una quarantenne di Malindi che lavorava alla boutique del villaggio . Tom si sentì in dovere di chiarire il loro rapporto. –Le premetto che Heleni può essere considerata al di sopra di ogni sospetto,Elizabeth ed io ci fidiamo ciecamente di Lei. E’ una delle poche persone del posto con cui abbiamo stretto amicizia fin dai tempi del nostro primo viaggio. Clancy interruppe Tom –Signor Donner, non mi fraintenda. Voglio solo sapere chi avete frequentato e chi conoscete qui. Alcune persone, anche in buona fede, potrebbero aver parlato di voi in ambienti, diciamo mal frequentati. E forse un malvivente, a conoscenza , anche casualmente, del vostro programma di viaggio, potrebbe aver organizzato un rapimento ai fini di un riscatto. Non possiamo permetterci di scartare aprioristicamente alcuna ipotesi, ne conviene?— --Si, ne convengo --rispose Tom con la testa fra le mani mentre pensava – Ipotesi , solo ipotesi. Vai a farti fottere , snob di merda. non mi rimane che chiamare Heleni e chiedere l’aiuto di Jeff. Somalia 8 Gennaio Il giorno dopo il rapimento I Guerriglieri della Liberazione e kalama, a mattino inoltrato si stavano inerpicando sulla salita rapidi come capre evitando il sentiero tremolante per il calore. Il sole già alto nel cielo e la secca aria calda, non bastavano a giustificare il cuore in gola e le budella sottosopra che tutti gli uomini del gruppo, come colpiti da un virus, avvertirono nello stesso momento. La sensazione che in loro assenza fosse successo qualcosa di terribile nel loro posto al centro del nulla, che coraggiosamente chiamavano base, li aveva assaliti appena posati i piedi fuori dallo scassato furgoncino Mercedes che non aveva più l’agilità necessaria per inerpicarsi sul ripido pendio. Con il fiato mozzato si erano abbassati ad osservare le tracce di pneumatici, mentre il vento caldo che spirava nella loro direzione entrava prepotente nelle narici portando puzzo di morte. Gli occhi scuri di tutti erano rivolti verso il capo – andiamo --- Kalama fece cenno di seguirlo in silenzio --cercate di restare al coperto delle stoppie, potrebbero essere ancora qui.-- -- Pony, vedi se riesci a leggere le tracce— Era il suo uomo più fidato, ed era un bantu. Lui stesso gli aveva dato il buffo nome. A nessuno in Somalia, importava come si chiamasse, Per lui e il popolo invisibile dei bantu c’era solo discredito e un’infinità termini dispregiativi: Li chiamavano Addon, ovvero schiavo, boon che significa bassa casta, e jiriir ( dai capelli crespi e ricci).Solo da pochi anni l’ esistenza di questo popolo è stata resa pubblica alla comunità internazionale, ma soltanto perché era necessario identificarli come persone nell’ambito dei campi di rifugiati. Kalama invece l’aveva chiamato così per affetto, perché la corporatura bassa e tozza gli aveva ricordato un piccolo cavallo che aveva quel nome. Ne aveva visto un disegno tanti anni prima, quando da adolescente impaurito, ma curioso del mondo che non conosceva, aveva preso il libro che lo ritraeva ,rubandolo dalla biblioteca di Shariff Said a Mogadiscio. Il segretario di Shariff aveva sorpreso Kalama con il libro aperto sulle gambe.- Quello è un pony- gli aveva spiegato Mode accucciandosi - un cavallo piccolo dal carattere indomito, ma che sa comportarsi con saggezza se viene trattato con rispetto. Sai, nelle sue corte zampe c’è più forza che in quelle di un dromedario-. Kalama si guardò intorno. Il paesaggio gli sembrò quello di sempre: la stessa pianura bruciata dal sole, lo stesso letto di sassi sul lato est, dove neanche la polvere riusciva a resistere al vento che vi spirava, e dove gli stessi alberi per proteggersi stavano rivolti con le striminzite chiome verso ovest. --- Indifferenza, ecco cosa vedo intorno - pensò, ---vita o morte, crudeltà o carità? a chi importa? Persino gli alberi in un posto così sono egoisti.-- Si mosse in silenzio verso pony che intravvedeva non molto distante da lui, mentre con il braccialetto di caucciù che teneva intorno al polso destro, si legò in una coda i capelli scuri e lisci che gli cadevano sul viso e sfilandosi l’unica sua maglietta, che poteva rimanere impigliata nei bassi anfratti che stava ispezionando, scoprì il corpo di quarantenne scolpito dalla dura vita e dal poco cibo. La pelle scura e sudata del guerrigliero scottava più della mitraglietta nera che imbracciava e le scariche di adrenalina gli acuivano i sensi già all’erta. Ma sotto la rabbia che guidava le sue azioni e la razionalità che faceva di lui un capo, percepiva la paura. Paura, che si era risvegliata non appena il suo cervello aveva catalogato gli odori del posto in cui si trovava come un allarme, che scattò come una molla riportandolo indietro nel tempo,riportandolo in un altro villaggio, riportandolo dentro il corpo e nella mente di un bambino terrorizzato. —Kalama!-, lo chiamò pony, con gli occhi ancora incollati sui segni lasciati nella polvere – sono andati via, le tracce dicono che la jeep è scesa da questa parte— e indicò agli uomini disposti in cerchio dietro una grande roccia, i rami dei radi anfratti sotto l’altura spezzati dal percorso a zig-zag della jeep. I guerriglieri ripresero a salire senza più curarsi di restare nascosti mentre l’odore acre di gomma bruciata si faceva sempre più forte. E pensare che la stessa mattina, senza averne la consapevolezza, avevano provato qualcosa di molto simile alla felicità. Sicché, tornavano da Mogadiscio con l’umore di chi fa la cosa giusta, gustandosi ancora la sensazione di benessere dovuta alla liberazione dei due operai italiani , rapiti la settimana precedente, in nome della causa alla quale dedicavano ogni giorno della vita. Il gruppo, nato per volere del governo fantoccio di Mogadiscio, in un primo tempo era tutt’altro. La sua costituzione era stata ideata per organizzare spedizioni punitive verso gli stessi Somali che durante la guerra civile, senza alcun freno uccidevano, rubavano,o razziavano bestiame in molti villaggi. Così asserivano le autorità dell’epoca. In effetti, erano stati personaggi governativi ad armare Kalama e i Guerriglieri e a fornire imbarcazioni e armi anche ai moderni pirati, che sfuggiti al controllo delle autorità, infestano oggi le acque del golfo di Aden. Ma l’indipendenza del gruppo venne consacrata definitivamente quando un uomo del clan Hawiye, incontrò Kalama e suo fratello, rivelandogli che la verità non era riportare l’ordine in Somalia, ma rompere lo spirito unitario della guerriglia e stroncare il fronte islamista che si stava appena costituendo. Il luogotenete Muse inoltre gli aveva rivelato che la manovra diversiva serviva per distrarre i cittadini somali dalla svendita delle risorse energetiche. Kalama ed alcuni degli uomini più coraggiosi si ribellarono, divenendo i guerriglieri , i cani sciolti che sono adesso. La loro non fu una scelta, piuttosto una necessità. divennero militanti per non morire schiacciati dalla tirannia di uomini ricchi e potenti , nel disperato tentativo di riparare almeno agli effetti collaterali dell’estrazione petrolifera, che inquinando le zone di pesca condannava alla morte per fame migliaia di persone. Gli ostaggi che Kalama e i suoi, avevano liberato in mattinata, non erano stati tenuti prigionieri nel campo; troppo disagevole per gli europei . Solo una volta, ai tempi del primo sequestro, vi avevano nascosto un ingegnere di origine olandese che soffrì terribilmente, poiché il caldo torrido che gli aveva rapidamente bruciato le mucose di bocca e naso fino a spaccargli la pelle delicata come fosse terra arida. Inoltre le pessime condizioni igieniche del campo, gli provocarono un’infezione intestinale talmente grave da metterne a rischio la vita . A Kalama dispiacque molto aver fatto soffrire quell’omone bonario, che venne rilasciato prima del tempo insieme ad un mare di scuse. Da allora il campo era solo un ritrovo per organizzare e unire una popolazione sbandata e senza speranza. Chiunque, senza portare il fardello della propria etnia poteva discutere liberamente,chiedere o dare aiuto. Invece gli ospiti , come li chiamava kalama, venivano tenuti prigionieri in un vecchio barcone abbandonato da anni in un ramo del delta del fiume che si univa all’oceano solo nei periodi di piena. Arrivati sulla cima dell’altura, il terrificante spettacolo. Sulla piana infuocata, dove anche le piante più resistenti e tenaci lottavano per la sopravvivenza, non c’era più traccia di vita. Al posto delle baracche e delle capanne di fango, c’erano solo voragini, buche immense, fumo. Pezzi di lamiera scagliati ovunque dall’onda d’urto di armi potenti, si confondevano con i brandelli di carne bruciata e sanguinolenta di corpi orribilmente straziati che aspettavano l’arrivo degli avvoltoi. Il volto di Kalama era sfigurato dal dolore. Dai lucidi capelli neri e lisci pareva gocciolare sudore misto a rabbia. La rabbia, che da sempre combatteva come fosse il suo peggior nemico, stavolta aveva vinto la battaglia. E si impadronì di lui avvolgendogli il corpo, spandendo le sue gocce velenose sulle larghe spalle, sulla barba ridotta a un piccolo triangolo sul mento, e sui baffetti sottili . kalama, che tutti i guerriglieri avevano voluto come loro capo, non aveva pensato a spostare la base in un posto più protetto. --Come ho fatto a lasciarli soli. Come ho fatto.-- Si ripeteva vagando per il campo con la morte nel cuore e gli occhi pieni di lacrime. Aveva dedicato la sua vita al progetto, investito tutte le sue risorse sul campo come fosse stato un seme nella terra, che accudiva cercando di far germogliare una società civile. Mentre si guardava intorno sconvolto da tanta ferocia, cercava di capire quante persone avessero perso la vita . Era il responsabile della loro morte. E In quel lembo di terra che sembrava maledetta, dove le persone lasciate sole dal mondo intero morivano per epidemie, malnutrizione, guerra, attacchi di animali, la sua colpa era ancora più pesante. -- È un disastro—piangeva, con le braccia aperte come ad abbracciare il campo. Il viso rivolto al cielo per ricacciare indietro rabbia e dolore. —Mi sono illuso che la speranza di una vita migliore per il mio popolo potesse rinascere da qui – si lasciò cadere sulla terra martoriata. – Per la prima volta , ero finalmente parte di un popolo, al di là delle etnie e interessi personali. Chi ha fatto questo non è solo mio nemico, è nemico della Somalia come Nazione. - Intanto gli uomini che lo accompagnavano cercavano di raccogliere i poveri resti umani da mettere al sicuro, almeno da morti. kalama , quale arma può aver fatto tutto questo?, non ho mai visto niente del genere. Chi può essere è stato?-- -- Non lo so Pony--, rispose a bassa voce .Non voleva aggiungere altro. Le parole lo ferivano facendolo urlare di dolore, come avesse la pelle bruciata. Kalama, seduto sotto l’unico albero rimasto, fissava il campo distrutto con un crescente senso di colpa Pony, dopo aver rimuginato per un po’, gli si avvicinò . pensando che all’ amico avrebbe fatto piacere sfogarsi con lui . Gli si accucciò accanto come un cane: -- kalama, non ho parole per dirti quanto mi dispiace. Mi domando se potremo mai costruire qualcosa di buono in questo paese-- – fino a poco fa ne ero fermamente convinto pony, ma ora non so che dirti--- – Dovrai stare ancora più attento, perché ho paura che dopo questo attacco, punteranno a prendersi la tua vita--. - Da quando sono nato sono scampato così tante volte alla morte, che mi sono convinto ci sia un motivo preciso per cui sono ancora in vita. La prima volta trovai la morte di fronte a me che ero ancora bambino, nel mio villaggio … Non l’ho mai dimenticato-- Kalama sentiva freddo e aveva la bocca asciutta mentre raccontava. --Arrivò di notte. Mio fratello ed io avevamo, non so esattamente, sei anni, forse sette, e dormivamo nella capanna ; noi con il nonno, e nostra madre, anche lei poco più di una bambina, con la nonna. Aprii gli occhi e trovai l’inferno. Urla e grida venivano da ogni parte. Ricordo l’odore dell’ incendio e la faccia sconvolta di nostra madre che gridava ---scappate!, andate via, sono arrivati gli spiriti della morte, vi porteranno via,-- Io la guardavo senza capire. Ma quando i bagliori ed il fumo delle capanne vicine ci riscossero dal torpore era troppo tardi. Gli uomini,che credevo demoni, non so quanti fossero, ma allora mi parvero tanti, erano entrati, e un attimo dopo io e mio fratello Mbawi, ci ritrovammo incaprettati come animali. Ci trascinarono via sparando. Kalama risentì le urla. Vide la gente del villaggio che schizzava sangue. Sua madre. I suoi amati nonni. Poni ascoltava in silenzio kalama , che raccontava il suo terrore incancellabile. Indimenticabile. E dentro i suoi occhi dallo sguardo vuoto, il dolore. -- Poi, mi ricordo stipato assieme agli altri in un cassone di camion che viaggiò e ci sballottò per tutta la notte . Faceva un gran freddo e mi sentivo paralizzato dalla paura perché non riuscivo a vedere Mbawi. Non ebbi il coraggio di aprire bocca per ore . Volevo chiamarlo. Sapere che eravamo insieme mi avrebbe aiutato, ma non lo feci, avevo paura che la mitraglietta del sorvegliante falciasse tutti noi. .--Kalama era di nuovo lì. – Cercavo conforto o risposte nei volti degli altri bambini. Ma intorno c’erano solo domande. Come adesso.-- Mestamente kalama si alzò in piedi, rimanendo a guardare la piana con le ossa doloranti come un vecchio. Pony invece pensava alla notte che sarebbe stata senza luna. La notte adatta per salutare i morti del campo e presentarli agli spiriti dell’aldilà. Come sciamano aveva eseguito tante volte il rito per i bantu, ma mai per dei Somali. Questa sarebbe stata la prima volta. Kalama fece raccogliere i corpi e lasciò per sempre il campo dirigendosi con i suoi compagni verso il fiume, al barcone. Essere profughi era il loro destino. Somalia 8 Gennaio Il giorno dopo il rapimento al campo di addestramento All’interno della baracca il caldo rendeva l’aria irrespirabile. Liz, anche se boccheggiante e legata con le caviglie alla branda ormai ridotta a una pozza di sudore, prestava la massima attenzione a ogni rumore. Sapeva di trovarsi in un posto selvaggio. Perché l’odore dell’umidità della foresta non poteva essere fermato dalle pareti di lamiera . Aveva riconosciuto il fresco respiro che proveniva dall’esterno, lo stesso che madre terra emana da ogni bosco, in ognuno dei cinque continenti. Ma l’odore della natura adesso le faceva orrore, e l’amore e il rispetto per il mondo animale che da sempre nutriva, scevro del senso utilitaristico così comune negli umani, era un sentimento che non ricordava di aver mai provato. Ora non le importava niente di tutti quegli spaventosi insetti che la assediavano. E tenendo gli occhi ossessivamente fissi sui bordi della finestrina o puntati sul verde delle foglie che si animavano prendendo le sembianze di pericolosi esseri mostruosi, avrebbe voluto farne una strage. Così spostava continuamente lo sguardo dai muri al pavimento nel tentativo di controllare il terrore che la prendeva al pensiero della carne viscida e fredda di un serpente che poteva infilarsi sotto la maglietta. Un incubo. Chiuse gli occhi e niente era cambiato. Era ancora un incubo. - L’emicrania e la droga mi impediscono di ragionare- pensò Liz, che premendosi le tempie cercò di alleviare un poco il dolore, ma sotto le dita le pareva di avere uno spiedo rovente. Il ferro incandescente le perforava l’orbita dell’occhio sinistro trapassando senza pietà le delicate circonvoluzioni del cervello, dove andava a rimescolare i pensieri , i ricordi e le paure che vi si erano rifugiati . Tutto ciò che aveva là dentro, era una matassa in parte ancora sconosciuta e talmente aggrovigliata che non aveva più capo né coda. La nausea, compagna inseparabile dell’emicrania, le dette appena il tempo di girarsi su un fianco prima di vomitare l’ acquiccia collosa e densa di succhi gastrici che lo stomaco non sopportava più. – Voglio morire- sussurrò stremata. Stava rapidamente sviluppando la medesima sindrome del carcerato rinchiuso nel braccio della morte, per il quale la vera pena da scontare è l’attesa e non la morte stessa. Scossa dal tremore cercò di cadere in uno stato di sonno vigile che sperava l’avrebbe aiutata a ritrovare la memoria. Mbawi finalmente conosceva il nome del suo ostaggio. Nei concitati momenti del rapimento, non aveva neanche pensato di chiederlo alla donna. Il notiziario appena trasmesso, aveva trattato in maniera scarna la vicenda della cittadina americana scomparsa mentre si trovava nel bel mezzo dell’aeroporto di Mombasa. Sposata. Due bambini. Nessuna rivendicazione da parte di eventuali rapitori. Mbawi sorridendo pensò che avrebbe posto rimedio a questa grave mancanza. Rivendicare il rapimento con il nome di Kalama era la seconda fase del piano. La più delicata e importante. Prese il cellulare per contattare Hans e si diresse alla baracca della prigioniera. - E’ incredibile,- pensò Mbawi - la copertura della rete telefonica arriva fin qua.- Ma il suo umore si incupì nuovamente non appena scorse la sagoma dell’uomo seduto a terra. Haribo appoggiato con la testa lunga e stretta alla lamiera montava di guardia alla donna che aveva lasciato da sola all’interno. Era uscito all’aperto di sua iniziativa, perché non poteva più stare dentro a guardare le cosce della prigioniera senza poterle toccare . Avrebbe voluto saltare addosso e scoparsela. Ma Mbawi aveva ordinato a tutti di non farlo; il primo doveva essere lui. Disobbedire agli ordini , Haribo lo sapeva, voleva dire perdere tutto. Per lui la morte violenta non era la peggiore delle punizioni. Era una condizione talmente naturale, che pareva facesse parte del suo bagaglio genetico, come una caratteristica fisica o un lato del carattere trasmessogli dal DNA dei genitori. Ciò che teneva a bada Haribo e gli altri ragazzi del campo, era il rischio di non morire con un colpo di pistola in mezzo agli occhi, ma di venire sacrificato in riti magici e posseduto dagli spiriti che entrano nei corpi degli uomini. Di perdere il riparo dove dormire e la sicurezza di mangiare tutti i giorni. Di perdere i compagni con i quali condividere i guai della vita. Insomma di dover tornare all’inferno. Ma nel campo si avvertiva anche una certa eccitazione. Il comunicato trasmesso in tv, stava per rendere il gruppo protagonista grazie alla notizia del giorno, padrone del destino di Liz e soprattutto di kalama . Dopo pochi attimi di sonno agitato, Liz riaprì gli occhi. La fronte appiccicosa di Mbawi era appoggiata sulla sua. La bocca puzzolente di alcool sussurrava un nome: il suo. Un lampo di lucidità le illuminò il cervello. Il mondo riprese a girare. --Elizabeth. io sono Liz!.-- Ma il volto del rapitore mutò di nuovo in un delirante mondo, dove solo l’angoscia che le attanagliava corpo e mente era reale. La droga che le avevano iniettato nel braccio dolente e livido, ancora non aveva esaurito i suoi effetti e la tuffava nel passato come fosse un insetto che si dibatteva in una melassa densa dei ricordi che stavano affiorando. Di nuovo in viaggio verso una dimensione sconosciuta si agitava scivolando su un fondo vischioso, dove la sostanza che aveva sotto di sé si trasformava sotto i suoi occhi in una gonfia schiuma grigia che ribolliva, sebbene fosse fredda come il ghiaccio. Intanto tutt’intorno intravvedeva accendersi colorate luci a intermittenza; come se assistesse dall’alto allo spettacolare panorama notturno di una città percorsa dai fari del traffico caotico. Ma tutti i lampi di colore avevano lei come bersaglio e la puntavano attraverso sbuffi di vapore denso, nuvole scure di un cielo temporalesco che le passavano sulla faccia oscurandole per alcuni attimi la visuale. Elizabeth guardava terrorizzata questo nuovo panorama che cambiava vorticosamente, senza riuscire a capire se fosse il tempo a viaggiare, o se fosse lei stessa ad attraversare lo spazio. I colori, che sempre più velocemente le correvano incontro come pallottole, prendendo le sembianze di lucenti corpi umani, infine la investirono esplodendole addosso . Dai resti bruciati , caduti a terra come morenti fuochi d’artificio, nacquero immagini così nitide che le sembrò di viverci dentro. Come fosse entrata in una fotografia ormai sbiadita dal tempo, si ritrovò sulla banchina di un porto affollato di gente , pigiata tra persone sconosciute. Avvolta da un assoluto silenzio, innaturale per un posto così pieno di gente, vide passargli accanto una giovane coppia infagottata in abiti pesanti. La ragazza, aveva i capelli neri e ondulati che si fermavano sulle spalle strette e due occhi leggermente infossati, scuri e tristi. La sua bocca era grande, e sembrava naturalmente portata a sorridere, ma le labbra sottili ora volutamente serrate sui denti davano al volto un’espressione preoccupata. Le mani guantate che teneva giunte in grembo, stringevano i manici di una rigida borsetta di vernice nera. L’uomo al suo fianco aveva dei colori completamente differenti dalla compagna . Era alto, con lisci capelli biondi e corti. Le sopracciglia, pure bionde, invisibili da lontano lasciavano nuda e senza protezione l’intera l’arcata degli occhi celesti. --Mamma, Papa!—chiamò forte lei. I due giovani la ignorarono . Riservandole lo stessa occhiata che si lancia di sfuggita a una sconosciuta, le voltarono le spalle prendendosi per mano. Il tenero gesto di tenersi stretti e vicini le fece stringere il cuore, poiché Liz era a conoscenza del futuro dei due ragazzi. Loro stessi erano l’unico prezioso bagaglio sul quale, da allora in poi avrebbero potuto contare. Liz avrebbe voluto abbracciarli e soffocarli di baci, tanta era la tenerezza che nutriva per loro, ma non riusciva a toccarli, a farsi notare. A quel tempo Liz Non esisteva. Sua madre Anna Maria già emigrata dall’Italia in Germania per seguire Abraham Browning l’uomo che amava, si accingeva a compiere un altro viaggio, anche se soffriva all’ idea di lasciare l’Europa. Il sacrificio di lasciare l’Italia , suo paese di origine, non era bastato, ma tanto era l’amore che nutriva per lui, che aveva accettato l’idea del brasile come nuova patria. - Sono venuti a salvarmi—pensò Liz convinta che fossero a due passi da lei. E iniziò a chiamarli intanto che si faceva largo tra la folla per raggiungerli prima che si imbarcassero sulla nave che li attendeva. Liz non capiva perché anche sforzandosi non riusciva ad emettere alcun suono. Tutto le sembrava talmente reale che a stento la sua coscienza comprendeva che non le serviva a niente agitarsi o tentare di urlare come una pazza, - Sono senza corpo, non possono vedermi o sentirmi. Sono un fantasma nel corridoio che collega luoghi e tempi diversi – E mentre piangeva, guardando i suoi genitori che salutavano dalla nave ,sentendosi attratta dall’unica macchia di colore rimasta sullo sfondo nebbioso, fissò come ipnotizzata e colma d’angoscia, il paio di stivaletti di gomma rossa ai piedi di una bambina che fino a quel momento non aveva notato. Liz al campo di mbawi . Non sapeva ancora se fosse un bene o un male aver riacquistato la memoria, ma almeno adesso aveva un’identità. E anche se i ricordi erano ancora soltanto degli acuminati frammenti di vetro, ora possedeva un passato. Si sentiva stanca e un lieve tremore, come una debole scossa elettrica, le percorreva tutto il corpo. Toccandosi con le mani tremanti si scoprì completamente bagnata di sudore, nonostante avesse freddo. Liz spostò l’attenzione dal suo corpo a ciò che lo circondava e sobbalzò. Un uomo la guardava. Haribo si alzò dallo sgabello su cui era seduto rimanendo piegato su se stesso e si avvicinò al giaciglio per assicurarsi che fosse sveglia. Un attimo dopo era già fuori dalla baracca che gridava in una lingua sconosciuta. Quattro uomini arrivarono veloci come i medici al capezzale di un malato e rimasero incantati a guardarla. Liz percepiva con difficoltà di vivere nel presente, poiché nella sua testa i pensieri dell’incubo e dalla realtà, ancora volavano liberi come farfalle, ma razionalmente era decisa a tenere sotto controllo il terrore che la trafiggeva come una spada. Puntellandosi sui gomiti aiutò il suo corpo indolenzito a sedersi sul pagliericcio, mentre la moltitudine di domande che in attesa di risposta si affollavano dentro di lei uscirono tutte insieme: ---Voi chi siete?, e cosa mi è successo?-- --perché mi avete portata qui?, dove siamo? – cominciò a piangere mentre il tremore aumentava. -Perchè?- Mbawi le rispose--- - calma!, calma! niente domande! noi siamo i Guerriglieri della liberazione somala. Io mi chiamo kalama,--- disse Mbawi che con lo sguardo chiedeva l’approvazione dei suoi che avevano riconosciuto il nome del capo dei guerriglieri. -- Tu sei stata rapita a scopo dimostrativo. Ma stai tranquilla non ti faremo del male. -Vogliamo solo far sapere al mondo della nostra lotta. Tra qualche giorno ti rilasceremo. Tu stai buona .- Mbawi era certo che Kalama le avrebbe dato molto più conforto. liz li guardava prendendo coscienza della grave situazione - avete sbagliato persona! Avete commesso un errore. Cosa c’entro io con la vostra lotta? Lasciatemi andare vi prego ! Scorse tutte le facce che la stavano guardando, anche se l’emicrania le aveva fatto calare un velo liquido sugli occhi. -- vi prego lasciatemi andare,vi darò del denaro!, contattate i miei familiari vi pagheranno un riscatto – Liz era bella anche adesso, con i capelli zuppi di sudore incollati sulla fronte alta e le guance accese da un febbricitante rossore. - come avete detto di chiamarvi? Guerriglieri della liberazione Somala? Questo non vuol dire che siamo in Somalia, vero? Vi prego ditemi che non mi avete portata in Somalia!-- I quattro se se stavano immobili come statue di sale. Nessun cenno , nessuna indicazione. Solo Mbawi capiva il senso delle parole di Liz, che ormai era un fiume in piena. -- Oh mio Dio!Voi siete pazzi! Perché proprio io, perché? Come faranno a trovarmi, Tom non mi troverà mai! -- - --- stai tranquilla. Ti ho detto che tra qualche giorno ti rilasceremo. Ma dimmi, nel tuo paese conoscono il nostro gruppo? Tu hai mai sentito parlare di noi? --Non lo so- rispose Liz che si sentiva ancora più confusa di prima - in questo momento non ricordo niente.— Si teneva la testa fra le mani pensando che la situazione era più grave di quanto potesse immaginare,------questi uomini non sono degli sbandati sprovveduti che si possono comprare con pochi dollari, sono dei veri banditi che hanno uno scopo preciso! — il pensiero quasi le impediva di respirare. -Va bene Elizabeth, riposati. Gothi, rimarrà qui-- Gli uomini si alzarono e cominciarono a parlare una lingua che Liz non conosceva. Quattro di loro uscirono e uno, il più alto e robusto di tutti, si sedette silenzioso su un bidone e non le staccò più gli occhi di dosso. Liz aveva per la testa troppe cose a cui pensare. Si domandò- da dove iniziano le ricerche quando una persona viene rapita?-In Africa come funzionano la polizia, la burocrazia, l’Ambasciata Americana? E in Somalia?In un paese in guerra la vita conta meno di un pugno di cibo! Oh Dio mio, aiutami! Ma Tom saprà da chi sono stata rapita ? oppure sarò soltanto un altro nome alla voce donne scomparse? -- tutte domande senza risposta. Improvvisamente alla sensazione di paura si aggiunse l’amara conferma di come fosse l’Africa. Come caduta in un baratro si rese conto di non sapere niente di quel continente e della gente che lo abitava. La sua presunzione di occidentale le aveva fatto credere di conoscerla, solo perché ci passava le vacanze una volta all’anno o perché si scambiava auguri e cartoline da distanze incommensurabili con un paio di suoi abitanti .-Stupida illusa- si disse. l’Africa era morte, sofferenza, sopravvivenza. Dietro ai tramonti romantici, spiagge da sogno e gente sorridente, esistevano piaghe purulente lasciate a incancrenire da secoli dal colpevole consenso internazionale, teso allo sfruttamento totale continente. Ma anche tutti coloro che come lei pensavano di amarlo, erano colpevoli di non aver voluto vedere nel profondo, fermandosi a guastare il superficiale divertimento delle canzoncine swahili che riecheggiavano nei villaggi turistici protetti da guardie armate. Guardò fuori dai vetri sporchi di una minuscola finestrina e vide le tenebre, anche se era pieno giorno. Il suo custode prese una lampada a gas e l’accese mentre le ombre proiettate intorno incombevano su di lei. Si rannicchiò in un angolo del giaciglio e tentò di nascondere i singhiozzi che la scuotevano. Come può l’africa---si domandava-- il continente che amo tanto, essere ridotta a compiere questi atti barbari per chiedere aiuto al mondo? Liz si serviva della paura per non pensare ai suoi bambini. Nei pochi momenti di libertà che la droga le lasciava, preferiva concentrarsi sul presente anche se terribile e inspiegabile, piuttosto che pensare a Meggy e Clive piangenti che chiedevano di lei. Ad occhi chiusi cinse le mani intorno al corpo fino a quando sentì sulla pelle il tepore dei piccoli corpi morbidi e il loro odore. -- No è troppo. Troppo doloroso e incredibile. Impossibile. Voglio credere che non sia vero. Voglio credere che questo sia un incubo. I miei figli dormono nella loro stanza e tom è accanto a me. Tra poco mi sveglierò nel mio letto e tutto sarà finito-- con gli occhi chiusi in cerca di speranza si concentrò sulla sua vita lontana, ma i rumori provenienti dall’esterno della baracca le riempirono le orecchie prima che fossero zittiti dalla marea chimica che stava tornando a lambirle la coscienza. Mbawi , nella baracca al centro del campo parlava ai suoi. Gli piaceva moltissimo avere la loro attenzione. --ora arriva la parte più importante dell’operazione-- disse,-- dobbiamo registrare un video che dimostri il rapimento dell’americana. Hans mi ha dato una telecamera per girare lo stesso tipo di filmato dei Guerriglieri. Cawi vai a prenderla, è sotto il sedile passeggero della jeep. -- Si, comandante-- --Gothi - riprese Mbawi—tu porterai il filmato ad Hans che ti aspetta al porto. Nel giro di un’ora lo farà avere alle agenzia di stampa di tutto il mondo. Poichè Stigo era di guardia alla donna , rimaneva da assegnare un incarico ad Haribo. Haribo dimmi, hai visto in tv Kalama e i prigionieri?-- --Si Comandante— --Bene,il nostro video ed il loro devono sembrare gemelli. Cerca un telo nero e stendilo su una parete della baracca della prigioniera, in modo che faccia da sfondo a me e l’americana. Il posto ed io non dobbiamo essere riconoscibili nel filmato, per cui procurami anche un cappuccio. Vai e fai in fretta.— Haribo annuendo si precipitò a cercare qualcosa che assomigliasse a un telo nero. Mbawi continuò a parlare con Gothi , era l’unico rimasto con lui – Spero che quell’idiota di Haribo abbia capito. Ha il cervello di un lombrico. – i due ridendo si passarono la bottiglia di Vodka : --Anche kalama e i guerriglieri varranno a sapere del rapimento che rivendicheremo a loro nome, ma assolutamente non devono sospettare di noi, se scoprissero troppo presto chi si cela dietro al tranello che gli abbiamo teso, tutto il nostro piano andrebbe a farsi fottere— Mbawi non riusciva neanche a pensare a questa eventualità senza arrabbiarsi come un animale. Nel caso, aveva già previsto un piano di emergenza : uccidere kalama. -- certo comandante,-- rispose Gothi,--se scoprissero chi è stato a rapire la donna , verrebbero a prendersela, per dimostrare che non sono stati loro a rapirla-- Mbawi rispose con aria di sfida - quel vigliacco di kalama è peggio di un coniglio, non avrà il coraggio di farlo. Mi teme troppo. In ogni caso le agenzie internazionali avranno già dato a loro la colpa del rapimento . --E della morte della donna-- aggiunse Gothi. --Si —confermò Mbawi-- quindi avranno un bel daffare a convincere il mondo e gli americani che non sono loro i colpevoli. Si! sarà davvero un bel problemino per kalama!— ridendo uscirono dalla stanza per raggiungere l’improvvisato set cinematografico. Nella baracca dove era tenuta prigioniera, Liz guardava gli uomini. Neanche nei suoi incubi peggiori era mai arrivata a tanto. Era una scena surreale. Mbawi entrò facendo fuori tutti i suoi pensieri. La vista di quell’uomo la annullava. Sussurrando parole incomprensibili con una mano seguiva il contorno del suo viso e del collo, -- Elizabeth, chi sei?, cosa fai nel tuo paese? E’ vero che voi americani pensate a noi Somali come a degli esseri inferiori? Come delle scimmie , vero? -Io no, non sono così- diceva mentre piangeva, - io amo l’Africa, vi sbagliate!, io non sono come pensate! Liz non sapeva cosa fosse meglio rispondere .Non sapeva se doveva mostrarsi così impaurita come di fatto era, oppure se doveva sfidarlo. Anche solo con lo sguardo. --Cosa si aspettano da me?—si chiese --Allora,? Rispondi! Mbawi era stufo. La donna era proprio una tipica occidentale. Come lei ne aveva viste tante, in programmi televisivi e in Kenia. Tutte emancipate, libere. Guardavano chiunque dritto negli occhi con aria di sfida senza abbassare mai lo sguardo e andavano in giro mezze nude provocando gli uomini. Anche lei mostrava il suo corpo, sfidando le tradizioni del paese che la ospitava incurante della religione e delle persone che potevano sentirsene offese --quindi- pensò Mbawi –questa donna è colpevole. - Colpevole di far parte del lato del mondo, che da sempre incombe sull’altro.—Il mio-- Concluse. E tanto bastò a riaccendere la rabbia. La strattonò in malo modo tirandola in piedi e spingendola a calci davanti alla telecamera mentre mettendo la mano sul lungo coltello che portava alla cintura , a denti stretti la avvertì: --te lo chiedo per l’ultima volta brutta troia, chi cazzo sei nel tuo paese di merda? Liz con tutto il coraggio che le rimaneva raccolse il fiato e disse,-- sono solo una qualsiasi turista americana -- il poco inglese che i somali conoscevano bastò a lasciarli delusi -- Io sono Elizabeth Browning , sono sposata con Thomas Donner un assicuratore , ma. Ma. – Liz balbettava in cerca delle parole giuste - ma se può aiutare, me, si, ma anche voi, ecco, sappiate che mio marito può contattare esponenti del governo americano ,per aiutarvi. nella vostra lotta, per la vostra guerriglia.. – concluse incerta su cosa fosse meglio dire. Mbawi tradusse quanto aveva detto, suscitando , agli occhi di Liz, un inspiegabile divertimento, e girandosi mentre la tratteneva per un braccio si trovò così vicino alla sua bocca sensuale che suo malgrado sentì l’eccitazione esplodergli nel ventre. Si riscosse e con rabbia disse -- giriamo questo cazzo di video.--- Il capo si stava preparando come un attore mettendo della carta in bocca per falsare la voce e sulla testa un cappuccio nero . Liz accanto a lui venne imbavagliata con uno straccio lurido . Gothi accese un’ulteriore lampada vicino a Liz, per far vedere bene il suo volto. Infine posizionata la telecamera disse: -- quando vuoi capo. E’ tutto pronto-- guardando nell’obbiettivo Mbawi si irrigidì come avrebbe fatto un vero guerrigliero , ma pensando che la mano sinistra potesse tradire la sua identità mostrando le quattro dita , le nascose sotto l’impugnatura del coltello che scendeva sul fianco sinistrò e ruotò il polso. - Sono pronto - disse Gothi spinse il tasto della registrazione e la luce rossa della telecamera si accese. Gli uomini muti, quasi senza respirare , guardavano Mbawi che parlava usando le stesse parole di Kalama. --Parlo a nome dei Guerriglieri della liberazione Somala. Rivendichiamo il rapimento di Elizabeth Browning Donner cittadina Americana,-- dopo le prime parole si rilassò leggermente e disse ancora: -Questa è la lotta per il nostro paese , Questo rapimento è la conseguenza delle criminali politiche occidentali, indifferenti o complici di chi ruba le risorse del nostro paese, il pane per i nostri figli ridotti alla fame.— Elizabeth temette di svenire. Respirava a fatica sotto il bavaglio mentre stava in piedi accanto al terrorista : --Mi spareranno in testa—pensò –ora mi ammazzerà— e gli occhi azzurri dilatati dalla paura si riempirono di lacrime, calando un sipario liquido sullo spettacolo intorno. Aveva davanti agli occhi i terrificanti filmati di numerosi ostaggi uccisi in diretta –Oddio! aiuto! È meglio che mi uccidano subito. Non ce la faccio, ammazzatemi subito! Subito! Purché finisca! Ho paura!, ho paura!, ho paura! ----Continueremo a prendere occidentali in ostaggio fino a quando le compagnie petrolifere non cesseranno di depredarci. Seguirà un altro comunicato--. La telecamera venne spenta. Mbawi si tolse il cappuccio e sputò la carta, liberandosi dell’ostaggio con una spinta. Liz, con le caviglie e le mani legate cadde a terra sbattendo violentemente il capo. Un rivolo di sangue dal cuoio capelluto bagnò il terreno, ma nessuno lo vide. L’attenzione di tutti era rivolta al filmato. --fammi vedere –disse il capo a Gothi, che mostrò la registrazione . Soddisfatti del risultato gli uomini riportarono i loro sguardi su Liz, che pareva essersi di nuovo addormentata. I suoi capelli biondi li attiravano come una calamita. Gothi, in modo particolare, la studiava come se volesse imparare a memoria ogni suo particolare, ogni curva del corpo inanimato, anche se, senza il governo della mente, Liz appariva colma di pudicizia. Solo Mbawi pareva immune al suo fascino e tirò un calcio a Gothi che sembrava caduto in trance . –Gothi!!--- gli sibilò a denti stretti -- Presto,porta la telecamera ad Hans. E mentre sei al porto, cerca di sapere se kalama è stato alla sua base.-- --Cerca sue notizie anche da quel gruppo di invasati reazionari suoi amici. Sono sempre al porto alla ricerca di uomini per gli arrembaggi alle navi. Ma non fare domande che possano insospettire qualcuno. Ascolta e basta. Vai ora.--- Mbawi si avviò verso l’esterno in preda a una sensazione di effervescenza simile all’orgasmo -Kalama,non ti voglio uccidere. Ti voglio umiliare. Ti voglio annientare.- Prima di uscire si girò indicando a Cawi il corpo incosciente di Liz -Tu resta qui e tienila d’occhio, se si risveglia urlando come una pazza, dalle un’altra dose-- Il viaggio di Liz Liz era a terra. Buio. Poi, la luce . Un sole accecante. Sporgendosi oltre la cresta del burrone, guardò giù dall’altissima rupe sulla quale si trovava. Una fitta di dolore le attraversò la testa mentre una perversa attrazione per il vuoto la attraeva verso il panorama sottostante. Una città si stendeva a perdita d’occhio sotto di lei. Era talmente piccola e lontana che pareva una miniatura. – Sono a casa! Oh Mio Dio, finalmente sono tornata a casa– pensò . Era al colmo della felicità anche se un formicolio e un calore insopportabile le stavano invadendo il corpo. Il formicolio, a cominciare dalle gambe, si era trasformato nella puntura di milioni di aghi che le bucavano la pelle divenuta talmente molle e gelatinosa da non sostenerla più. Liz cadde nel precipizio. E intanto che precipitava gridava e scalciava cercando di opporsi alla forza di gravità che sempre più velocemente la attirava a terra. Quando con il corpo fu a poche decine di metri dal suolo, planò allargando istintivamente le braccia che si aprirono come ali glabre. Con la carne e le fattezze di un orrendo, enorme uccello, coprì con la propria ombra la città di Washington che si stendeva sotto di lei. Un pensiero che non riconosceva come suo la guidava in volo . -devo cercare un parco. E’ li , che troverò mia madre- Senza esitazione si gettò in picchiata su una chiazza di verde che si face rapidamente sempre più grande e vicina man mano che si avvicinava, fino a quando con la naturalezza di un uccello e la leggerezza di un angelo, atterrò sull’erba. Sempre guidata da un istinto che non riusciva a far combaciare con i ricordi si diresse verso una siepe. Le girò intorno con gli occhi rivolti al terreno, come sapesse cosa avrebbe trovato al di là del pitosforo ingiallito . Un corpo immobile era disteso sul terreno. Liz , cominciò a piangere mentre cadeva in ginocchio fissando la donna coperta da un velo. Con le dita tremanti scoprì il corpo di sua madre, aveva la stessa espressione atterrita e consumata dalle sofferenze del cancro che l’avevano portata alla morte. La stessa immagine che aveva scolpita nella mente da quel giorno di due anni prima, quando l’aveva baciata per l’ultima volta in un anonimo letto di ospedale. Adesso però gli occhi scuri e infossati erano aperti e rivolti al cielo. Liz, sperò che sua madre fosse viva e potesse vederla. Quindi mordendosi le labbra, avvicinò le mani per girare il volto amato verso di se. Ma prima di arrivare a sfiorarla con le dita tremanti, il viso perse rapidamente la carne, le cartilagini, i muscoli. Per un attimo rimase solo il teschio spolpato che si sgretolò fino a divenire polvere che spariva nell’erba alta. –Mamma! Mamma non lasciarmi sola. Ti prego. Non andare via, non morire Mamma. Ti prego!-- Liz gridò tutto il dolore e la disperazione per averla persa di nuovo. Tanto che non volendo darsi per vinta la chiamava a squarciagola mentre scavava a mani nude nel terreno duro . E scavò dappertutto , sola e disperata anche se faceva i conti con un passato triturato e rimontato insieme talmente alla rinfusa da non sembrarle più il suo. Quando le braccia furono troppo stanche per scavare ancora si alzò da terra. Era senza meta nella città completamente deserta. Mombasa- Kenia La mattina dopo il rapimento Tom aveva cambiato di nuovo idea, e adesso sotto il sole cocente, aspettava l’arrivo di Heleni per affidarle i bambini. Aveva deciso di cercare Liz disattendendo le raccomandazioni di Mike Colan. Per tutta la notte si era rigirato tra le mani il biglietto con il numero di telefono di Heleni senza decidersi a chiamarla, ripensando mille volte a tutte le occasioni in cui erano stati insieme. Voleva essere sicuro di lei prima poterle affidare i propri figli. Meggy e Clive andavano matti per quella donna africana dalla pelle liscia e compatta che invitava al buonumore con l’allegro tintinnare dei cerchietti di plastica colorata che fermavano le sue treccine . E soprattutto Liz provava un grande affetto per l’amica che in maglietta gialla e il viso sereno , le sorrideva ogni mattina dalla soglia della boutique di Malindi. Heleni e Liz si erano salutate proprio lì, al villaggio, solo poche ora prima. Strette dalla morsa della malinconia si erano abbracciate appoggiando la testa nera e bionda l’un l’altra. --mi dispiace tanto andare via Heleni. Ed ogni volta è sempre più doloroso. Da quanti anni ci conosciamo? Ne ho perso il conto!—aveva detto Liz tenendo le mani scure tra le sue. --Otto o nove anni credo—aveva risposto Heleni guardando la coppia con gli scuri occhi ridenti- Voi due non eravate ancora sposati e i miei figli erano ancora ragazzini. Adesso Tu sei una splendida mamma , e il mio Jeff è un agente di polizia— Heleni aveva scosso la testa ancora incredula della fortuna toccata a suo figlio maggiore. Ma Tom e Liz erano al corrente che non si era trattato solo di fortuna, ma anche per merito dei sacrifici bestiali che Heleni si era imposta per far studiare i propri figli dopo la prematura morte del marito. Heleni gli era talmente simpatica che tom le aveva promesso che l’anno successivo sarebbe potuta stare con Liz più a lungo. Sai Heleni,- le aveva detto Tom- Per la prossima vacanza di dicembre vogliamo organizzare un safari fotografico. Meggy e Clive allora avranno l’età giusta per non dimenticare più la magnifica esperienza. -Cosa ne dici Heleni potresti venire anche tu con noi? Scommetto che sono anni che non ti concedi un giorno di riposo, vero? -E’ vero Liz, hai ragione. Ma credo che se chiedessi alla direzione dell’hotel di allontanarmi per qualche giorno verrei licenziata. Sapete come funziona qui. Niente diritti. — e carezzando con la mano scura e leggera i volti dei due amici, regalò loro, con una punta di disagio, l’unica cosa veramente sua: il suo sorriso più bello. Tom intercettando il momento di commozione delle donne, intervenne nella conversazione per sdrammatizzare , cercando con lo sguardo l’approvazione di Liz. -Ah! Heleni, dimenticavo! Liz mi aveva raccomandato di chiederti il nuovo numero di telefono. - Bravo ragazzo! – disse Liz rasserenata dall’ottimo umore del marito che baciò con slancio